Lotta al Quirinale: l’affascinante storia delle elezioni al Quirinale

Il Palazzo del Quirinale sorge sull'omonimo colle di Roma e si affaccia sull'omonima piazza. È la residenza ufficiale del presidente della Repubblica Italiana ed uno dei simboli dello Stato italiano. Wikipedia

Il Palazzo del Quirinale sorge sull’omonimo colle di Roma e si affaccia sull’omonima piazza. È la residenza ufficiale del presidente della Repubblica Italiana ed uno dei simboli dello Stato italiano. Wikipedia

La “voce” secondo cui Giorgio Napolitano annunci le dimissioni durante il consueto messaggio di fine anno, sembra smentita: è probabile che attenda la fine del semestre europeo.
In ogni caso, solo l’idea ha portato ad affilare le lame dei vari partiti: la battaglia sembrava già al punto di cominciare.
Onestamente è giusto ricordare che la “Seconda Repubblica” ha avuto elezioni sicuramente più tranquille e meno battagliere, della prima: forse qualcuno ha imparato il senso della misura.

La prima elezione (del capo provvisorio dello stato) avvenne nel 1947 e fu rapida: Enrico De Nicola fu eletto al primo turno.
In ballottaggio c’erano due vegliardi: Vittorio Emanuele Orlando (proposto dalla Dc e dalle deste) e Benedetto Croce (proposto dalla sinistra e dai laici), ma saggiamente si decise di puntare su un nome unico e alternativo.
Quattrocentocinque voti bastarono e quasi tutta l’assemblea costituente fu d’accordo ma colpirono i centoventicinque assenti: un segno di come, anche dopo la comune lotta al fascismo, l’armonia non fosse ottimale come si afferma.
Un anno dopo l’elezione fu più difficoltosa.
Condite da un alto numero di schede bianche (arrivarono a trecentotrentatre al terzo scrutinio), le prime due sedute furono una schermaglia tra De Nicola e Carlo Sforza: il secondo pareva il candidato annunciato, ma non fu accettato dalla sinistra democristiana.
Dopo uno scrutinio di prova, Il quarto fu decisivo per Luigi Einaudi: nonostante le opposizioni tentarono di votare in massa Vittorio Emanuele Orlando (curioso cambio di opinioni, dopo il 1947).

Furono le elezioni successive, del 1955, che videro comparire le prime clamorose divisioni nella Democrazia Cristiana.
A parte un iniziale tentativo di elezione di Ferruccio Parri (al primo scrutinio) e una che simbolica rielezione di Luigi Einaudi (probabilmente voluti entrambi da aree laiche o di sinistra), il candidato naturale fu il moderato Cesare Merzagora: democristiano ma al di fuori da ogni corrente, il politico sembrava la figura più adatta.
Fin dalla seconda seduta però, la parte progressista della Dc, scelse Giovanni Gronchi, un membro storico e carismatico di questa corrente: Gronchi fu notevolmente ambizioso e, non pensando alla clamorosa frattura del suo partito, cercò subito alleati a sinistra.
Prima tentando vanamente di chiedergli di ritirarsi, la Dc fu costretta a votarlo compatta al quarto decisivo scrutinio.

Le elezioni del 1962 videro una Democrazia Cristiana più unita ma comunque sempre un po’ divisa.
Pensando al futuro governo di centro-sinistra, Aldo Moro impose al partito la candidatura di Antonio Segni: un moderato per controbilanciare la “svolta a sinistra”.
Nonostante questo, la parte sinistra della Dc e quella più moderata, tentarono di eleggere, rispettivamente: Giovanni Gronchi e Attilio Piccioni (definitivamente uscito dallo “scandalo Montesi”).
La sinistra si divise inizialmente sui rispettivi “candidati di bandiera” (Sandro Pertini o Giuseppe Saragat per i socialisti e socialdemocratici, Umberto Terracini per i comunisti) ma alla fine ritrovò su Giuseppe Saragat.
Nonostante Antonio Segni fosse il primo votato dal primo scrutinio, riuscì a vincere solo al nono, quando Giovanni Gronchi si ritirò definitivamente.

Le elezioni del 1964 furono tre le più lunghe ed elaborate della Repubblica Italiana.
Si ripetè la situazione del 1955: stavolta la Democrazia Cristiana decise di puntare su una figura neutrale e fuori dalle correnti, come Giovanni Leone (allora fu Merzagora), ma di nuovo, la sinistra del partito appoggiò le mire ambiziose di Amintore Fanfani (che stavolta non la spuntò, perché la sinistra decise di non appoggiarlo).
Ben quindici scrutini videro il frustrato Giovanni Leone tentare di ottenere il quorum richiesto ma ebbe i bastoni tra le ruote dall’indomito Fanfani (che ci provo per ben quattordici volte, fermato solo dalle suppliche dei cardinali): dopo vari tentativi la Dc decise di non presentarsi più in parlamento, finchè non avesse trovato un giusto candidato.
La sinistra votò come sempre i propri candidati di bandiera: Umberto Terracini per i comunisti (per dodici scrutini) e Giuseppe Saragat e, in seguito, Pietro Nenni per i socialisti.
Dal tredicesimo scrutinio i comunisti gettarono la spugna su Terracini, convergendo i voti su Pietro Nenni: probabilmente la candidatura del leader socialista, fu un paravento, nell’attesa di trovare un nome giusto e largamente condivisibile.
Il candidato azzeccato fu il redivivo Giuseppe Saragat, stavolta appoggiato da una larga maggioranza (che comprendeva anche l’area sinistra della Dc): fu eletto (dalla democrazia cristiana di sinistra) al ventunesimo scrutinio (grazie alla provvidenziale auto esclusione di Nenni).

Il triste record di lunghezza di scrutini avvenne però durante le elezioni presidenziali del 1971.
Fin da subito le scelte politiche furono diverse: la Democrazia Cristiana decise di candidare lo scalpitante Amintore Fanfani, mentre i maggiori partiti di sinistra scelsero il socialista Francesco De Martino (solo alcuni parlamentari tentarono di ricandidare Saragat).
Numerosi franchi tiratori dello scudo crociato, impedirono l’elezione di Fanfani: il leader toscano gettò la spugna al sesto scrutinio (salvo poi riprovarci all’undicesimo), dopo la lettura di un messaggio denigratorio su una scheda (“nano maledetto/non sarai mai eletto”), che curiosamente gli toccò leggere a lui.
Comprensibilmente delusi per la situazione, i democristiani (come nel 1964) smisero di votare e non si presentarono neppure in parlamento, finchè non trovarono un nome adatto:.
De Martino continuò imperterrito e più che mai frustrato, fino al ventunesimo scrutino (Saragat mollò la presa al quindicesimo), quando fu inutilmente sostituto da Pietro Nenni.
Al ventiduesimo scrutino, però la Dc trovò l’uomo giusto: Giovanni Leone (già battuto nel 1964, ma stavolta suggerito in altre situazioni), che dopo una sconfitta di due voti, vinse al ventitreesimo scrutino.

A confronto del 1971, le elezioni del 1978 furono più brevi, seppur decise solo all’ultimo momento.
Fin dall’inizio vi fu il solito gioco dei “candidati bandiera”: Guido Gonella per la Dc e Giorgio Amendola per il Pci (il candidato democristiano si arrese al terzo scrutinio).
Amendola continuò imperterrito e solitario fino al quindicesimo scrutino, finchè improvvisamente si scelse Sandro Pertini: l’anziano socialista (che aveva raggranellato solo pochi voti prima), vinse col punteggio altissimo di ottocentotrentadue voti.

Alle elezioni del 1985, la lezione sembrò imparata: per la prima volta dal 1946, Francesco Cossiga fu eletto al primo turno, attraverso una larga maggioranza che includeva sia centro sia sinistra.

La velocità di sette anni prima, non fu ripetuta nel 1992.
All’inizio la gara sembrò giocarsi a tre: Giorgio di Giuseppe (Dc), Nilde Jotti (Pds) e Giuliano Vassalli (Psi).
Nessuno dei tre raggiunse il quorum necessario, anzi Di Giuseppe ne fu alquanto lontano: a seguito quinto scrutinio, apparve il vero candidato democristiano, ossia Arnaldo Forlani (che però si ritirò dopo appena due sedute, non raggiungendo per un soffio il Quirinale, seppur avesse già preparato il discorso d’insediamento).
Mentre la “giovane” Lega votava compatta Gianfranco Miglio, la sinistra in chiara crisi, cambiò numerose volte candidature: Nilde Jotti (fino all’ottavo scrutinio), l’eterno Francesco De Martino, Giuliano Vassalli, Ettore Gallo e Giovanni Conso.
Un nome condivisibile poteva essere Giulio Andreotti, quando improvvisamente accadde l’attentato a Giovanni Falcone: il tragico episodio risvegliò gli animi (a seguito anche della dura predica, durante i funerali della scorta) e fu eletto d’improvviso Oscar Luigi Scalfaro, al sedicesimo scrutino.

La Seconda Repubblica portò forse a una maggiore responsabilità partitocratica e, nel 1999, Carlo Azeglio Ciampi fu eletto al primo scrutinio.
La prima elezione di Giorgio Napolitano nel 2006, fu più lunga (ci vollero quattro scrutini) ma assolutamente non paragonabile ai tempi passati: dopo due scrutini con un altissimo ed eloquente numero di schede bianche (settecento e passa), al quarto stravinse Giorgio Napolitano.

Le ultime elezioni del 2013, videro l’avvento del Movimento Cinque Stelle (che votarono compatti, ma inutilmente, Stefano Rodotà) e quindi una situazione ingovernabile, con accordi impossibili.
Dopo un fallimentare tentativo di Franco Marini, si tentò la carta di Romano Prodi, appoggiato dal segretario Pd, Pier Luigi Bersani: l’economista, sicuro dell’intero appoggio del Pd, tornò gioioso dal suo viaggio in Africa ma fu clamorosamente battuto (anche da franchi tiratori nel Partito Democratico), con conseguenti dimissioni di Bersani.
A questo punto, i partiti maggiori disperati, furono costretti a chiedere a Giorgio Napolitano un secondo, storico, mandato: il presidente uscente accettò, seppur con molte riserve (tra cui la tarda età e quindi l’impossibilità di durare per sette anni).

La speranza, anche per il bene del paese, è che la nuova situazione politica possa garantire una tranquilla elezione del nuovo inquilino del Quirinale.

Rey Brembilla

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