Il 1° Maggio, festa del lavoro che non c’è

“Lavoratori! Ricordatevi il 1° Maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado […]

“Lavoratori! Ricordatevi il 1° Maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la rivoluzione sociale! Viva l’Internazionale!”

Se vi fosse capitato di aggirarvi per le vie di Napoli, nei giorni immediatamente precedenti il 1° Maggio 1980, avreste potuto imbattervi in questo volantino: magari affisso sulle mura sgretolate di un vecchio palazzo, o macchiato e stropicciato sull’asfalto, o consegnato dalla mano di un giovane apprendista. Se foste stati borghesi avreste avuto paura, il vostro cuore si sarebbe infiammato se fosse stato operaio; o forse, non avreste saputo leggere, e l’avreste gettato via come un pezzo di carta inutile, quel volantino.

Da lì nasce la storia del 1° Maggio: sulla scia delle battaglie e delle successive commemorazioni statunitensi in onore dei Cavalieri del Lavoro – ma soprattutto in memoria dei Martiri di Chicago, giustiziati per aver organizzato, il 1° Maggio 1886, uno sciopero in favore dei diritti dei lavoratori – la Seconda Internazionale di Parigi istituì, nel luglio 1889 “una grande manifestazione, organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente, in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi”.

La conquista più importante che ottennero i lavoratori proletari dell’epoca fu infatti il diritto alle 8 ore lavorative stabilite per legge. Una conquista per cui molto sangue fu versato, il sangue di quanti morirono nella battaglia, ma soprattutto il sangue di tutti quegli operai che furono stroncati da ritmi di lavoro disumani.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Il mondo del lavoro si è evoluto, aprendo le porte al libero mercato, alla libera professione, alla libera (e spietata) concorrenza. Le multinazionali e le lobby si sono fatte spazio ingurgitando le grandi fabbriche figlie della rivoluzione industriale, il business si è spostato sulla massimizzazione dei profitti e sulla riduzione dei tempi e dei costi del lavoro, l’avvento delle macchine e del marketing ha partorito professionalità sempre più intellettuali e meno legate alla materialità della produzione.

Oggi il 1° Maggio ha perso il valore di conquista, il sapore di vittoria che aveva un tempo, è diventato una festa borghese come tante, l’antico spirito incarnato soltanto dai concerti di piazza organizzati a spese dei sindacati. Questo 1° Maggio 2013, è cosa nota, cade in tempi di crisi: il 1° Maggio del lavoro nero, il 1° Maggio del lavoro sottopagato, il 1° Maggio del non lavoro, il 1° Maggio delle 16 o 18 o 20 ore lavorative dei liberi professionisti, il 1° Maggio che “non c’è più niente da festeggiare”.

Un 1° Maggio di allerta, soprattutto per la Capitale, dove si concentrano la maggior parte delle manifestazioni, in particolar modo dopo l’attentato dei giorni scorsi davanti a palazzo Chigi che ha visto il ferimento di due militari ad opera di un uomo che il lavoro non ce l’ha più, l’ha perso a causa della crisi.

I dati Istat parlano chiaro: il tasso di disoccupazione giovanile è salito (nel 2012) al 35,3%, ben 15 punti percentuali in più rispetto al minimo storico (dal 2004 a oggi) del 2007, anno in cui si attestava al 20% “appena”. Il lavoro nero è in aumento, non solo nel settore agricolo e tra gli stranieri, che di fatto rappresentano, in 400mila, soltanto il 12% dei lavoratori non contrattualizzati regolarmente, che in tutto ammontano a 3 milioni. Calate anche le retribuzioni lorde per le imprese, 1,3% per cento in meno in un anno. Questi i dati ufficiali, a fronte di una situazione empirica che tutti viviamo quotidianamente sulla nostra pelle: i giovani, costretti a piegarsi a orari e turni di lavoro che vanno ben oltre le otto ore previste dalla legge, in stage non retribuiti, contratti non regolari e sottopagati; i liberi professionisti, votati al sacrificio di orari lavorativi massacranti; i disoccupati, che un lavoro devono inventarselo racimolando rimborsi e mance qua e là.

Questo 1° Maggio, portatore e simbolo di antichi valori, antiche battaglie e conquiste, spinge davvero a una riflessione. Sono lontani i tempi dello sfruttamento in fabbrica e nelle miniere, del lavoro fisicamente devastante e dell’annebbiamento dell’identità e dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, una nuova forma di sfruttamento sembra farsi strada, silente, nel mondo dei mercati globalizzati di oggi: la lotta al ribasso, le prestazioni offerte gratuitamente o quasi nella logica di una spietata concorrenza, la totale abnegazione al lavoro e il sacrificio della propria vita per tenersi stretto un posto che non è nemmeno quello che si voleva, ma è l’unica piccola certezza che si ha, “perché tanto se te ne vai tu ne trovo altri 100 che il lavoro lo fanno meglio di te”.

Una nuova forma di alienazione, sotterranea e inquietante, che, se Marx fosse stato ancora vivo, gli avrebbe fatto accapponare la pelle.

G.G

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