Perché l’emergenza rifiuti a Napoli non avrà mai fine

Munnezza, munnezza e ancora munnezza. La spazzatura a Napoli è dappertutto, in centro e in periferia, nei vicoli tra le case e sulle strade extra-urbane. La munnezza è ormai simbolo di Napoli, come prima lo erano la pizza o il mandolino: tanto che il pestilenziale sacchetto ha fatto (benedetto senso dell’humor di qualche incauto commerciante) la sua comparsa anche tra i souvenir per turisti che affollano le bancarelle del centro. E se Napoli fa rima con munnezza, napoletano diventa sinonimo di sudicione, o peggio accattone: l’emergenza rifiuti è sbattuta in prima pagina su tutti i quotidiani internazionali, e i civilissimi abitanti del “Nord”, d’Italia e d’Europa, non si spiegano perché mai i napoletani protestino contro discariche e inceneritori, perché preferiscano tenersi la munnezza per la strada piuttosto che destinarla agli appositi siti di stoccaggio. La domanda ricorrente è: “Perché queste cose succedono solo a Napoli?” E la mannaia dell’opinione pubblica cade (come sempre) sul collo della parte più debole della contesa: napoletani sozzoni, napoletani approfittatori che vogliono inviare le loro scorie indifferenziate in un pulito, operoso e generico “Nord”. Davanti al balletto mediatico delle istituzioni che si accusano di reciproca incompetenza – davanti a un Premier che assicura ogni dieci giorni che l’emergenza rifiuti sta per essere risolta, per poi essere puntualmente smentito dai fatti e puntare un dito accusatore contro gli enti locali, il Comune, la Provincia e la Regione, contro la Protezione Civile, contro il Ministero delle Finanze che non ha fondi e quello dell’Ambiente che non vuole sganciarne, i quali rimandano indignati le accuse al mittente – davanti a tutto questo teatrino, che somiglia sempre più a una partita in cui la patata bollente è sostituita da un sacchetto miasmatico, la gente non sa più a chi credere. E finisce per pensare che l’unico colpevole certo dell’emergenza rifiuti non possa che essere lo stesso popolo napoletano: il napoletano che manifesta contro gli inceneritori e non cede all’apertura delle discariche, il napoletano che non vuole la munnezza a casa sua ma non si preoccupa di inviarla agli altri, il napoletano che non fa la differenziata. Intanto, la tarsu campana, aumentata da una Provincia che però non ha ancora messo a punto un piano di risoluzione della crisi e minaccia di esonerarsi dalla gestione del ciclo rifiuti a partire dal 2011 (a chi passerà mai, stavolta, la patata bollente?), ha raggiunto, in alcuni comuni, picchi di aumento pari al 50%. E i napoletani continuano a pagare profumatamente lo smaltimento fantasma di una munnezza che invece è fin troppo concreta, mentre l’Italia riceve un ulteriore ammonimento ufficiale dall’Unione Europea per l’incapacità, oramai conclamata, a risolvere l’emergenza rifiuti in Campania.
Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di sfatare alcune mitiche ed erronee credenze.

Raccolta differenziata. In questi ultimi giorni del 2010 il Wwf ha reso pubblico un rapporto relativo all’andamento di un progetto sperimentale di raccolta differenziata porta a porta, che ha interessato sette eterogenei quartieri del napoletano: Bagnoli, Ponticelli, Centro Direzionale, Chiaiano, Colli Aminei, San Giovanni a Teduccio, Rione Alto. Dai dati divulgati emerge che l’ammontare di “differenziazione” dei rifiuti nei quartieri coinvolti nel progetto, di durata biennale, ha raggiunto in media una cifra pari al 66% dei rifiuti totali, con picchi del 90% nella “virtuosissima” Bagnoli, e con un trend in crescita costante dal 2008 ad oggi; dati che mostrano una sempre più spiccata sensibilizzazione al problema dei rifiuti, e una partecipazione dei napoletani alla raccolta differenziata che è uguale, se non addirittura superiore, a quella di molte altre regioni italiane. Un ritratto che vede quindi i napoletani, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, come “campioni” della differenziata.

Discarica di Terzigno. Perché le proteste dei residenti? Forse non tutti sanno che la famosa Cava Vitiello fa parte del territorio del Parco Nazionale del Vesuvio, un’area protetta di interesse ambientale, che originariamente (2004) era stata coinvolta in un progetto “Per il recupero, la ricomposizione e la riqualificazione ambientale delle cave e delle discariche del Parco Nazionale del Vesuvio e la verifica della possibilità di utilizzo della frazione organica stabilizzata prodotta nel ciclo integrato dei rifiuti nella Regione Campania”, che aveva come obiettivo finale la bonifica e il recupero ambientale dei comuni di Terzigno, Boscoreale, Boscotrecase e Trecase, già all’epoca devastati da sversamenti (illeciti?) di rifiuti. La Cava Vitiello era stata dunque indicata come idonea al “solo recapito di frazione organica stabilizzata ed esclusivamente ai fini di ricomposizione morfologica del sito medesimo”, come si legge in un rapporto del Wwf. Tuttavia, la Campania è tutt’oggi priva di impianti di compostaggio e stabilizzazione dei rifiuti organici, che difatti vengono inviati altrove per essere compostati – a spese dei cittadini napoletani. In assenza di tali impianti, la Cava Vitiello non avrebbe mai potuto essere utilizzata per lo smaltimento di rifiuti organici non trattati. Eppure, il decreto legge 90/2008, trasformato poi nella legge 123/2008, varata in piena emergenza rifiuti e in barba a tutte le normative previgenti, autorizzava ugualmente lo sversamento, in un Parco Nazionale, “di varie tipologie di rifiuti, non solo appartenenti alla categoria dei solidi urbani”; sversamento che, se si fosse verificato, avrebbe comportato un danno incalcolabile per l’intero territorio e per la cittadinanza.

Termovalorizzatori: il caso  di Acerra. La legge 123/2008 annunciò anche la realizzazione di quattro impianti di incenerimento dei rifiuti: oltre a quello di Acerra, se ne prevede l’installazione a Napoli, Salerno e Santa Maria La Fossa (CE). Ma sono davvero necessari tutti questi inceneritori? E soprattutto quanto “convengono”? Ad oggi, delle tre linee dell’inceneritore di Acerra solo una è attiva e funzionante; anzi, molti imputano proprio all’arresto della seconda linea l’ultima ondata dell’emergenza che ha investito Napoli e Provincia in questo scorcio finale del 2010. Inoltre, gli impianti di termovalorizzazione non bruciano qualunque tipo di rifiuti: come fa sapere il Wwf, questi ultimi vanno accuratamente differenziati prima di essere destinati all’incenerimento; in particolare, i rifiuti organici, essendo costituiti principalmente di acqua, depotenzierebbero la capacità di produzione energetica dell’inceneritore stesso, dato che, “com’è noto, l’acqua non brucia”. A conti fatti, secondo il Wwf il solo inceneritore di Acerra, se funzionante a pieno ritmo e adeguatamente affiancato da impianti di compostaggio della frazione umida, oltre che da una corretta raccolta differenziata, basterebbe, con una capacità di incenerimento di 600.000 tonnellate annue, a smaltire tutta quella munnezza napoletana che non è possibile riciclare o compostare. Se questa differenziazione tra frazione umida, altri rifiuti riciclabili e rifiuti da destinare alla termovalorizzazione avvenga realmente non lo sappiamo; quello che è certo è che l’inceneritore di Acerra funziona poco, e male, dato che nelle zone limitrofe l’emissione di polveri sottili ha superato, secondo un rapporto dell’Arpac, di quasi il 40% il limite stabilito dalla legge.

Analizzati tutti questi dati, bisogna chiedersi se la radice dell’emergenza sia veramente nella protesta e nella strafottenza di un popolo arretrato, che non differenzia e che non vuole i rifiuti in casa sua, oppure se la munnezza che si vede a Napoli è solo la manifestazione, visibile e concreta, della situazione di incompetenza generale in cui versano le istituzioni italiane.

Giuliana Gugliotti

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