François Truffaut, il cinema non è più finzione

Con François Truffaut il cinema esce dalla finzione e diventa realtà.

La verità è una soltanto. Loro vogliono ciò che voglio io: l’amore. Tutti vogliono l’amore: ogni specie d’amore. Bertrand Morane, L’uomo che amava le donne

Mi chiedo se sarebbe sbagliato interpretare la vita di François Truffaut come una continua ricerca d’amore. Non l’amore fisico, che si può trovare a ogni angolo di via, in svendita sui marciapiedi o nel calore avvolgente di qualunque corpo anonimo. Ma l’Amore quello vero, quello con la A maiuscola, quell’amore che è capacità di prendersi cura e bisogno soddisfatto di rispecchiamento nell’altro, sentimento di affiliazione e di appartenenza. Quell’appartenenza che fu tanto controversa per il regista francese, e che con tanta difficoltà egli riuscì a elaborare e a esprimere – catarticamente – nella vasta produzione cinematografica che in un ventennio di attività lo trasformò in uno dei maestri del cinema contemporaneo nonché nell’esponente di spicco della Nouvelle Vague, movimento dell’avanguardia cinematografica europea.

François Truffaut (1932 – 1984) ebbe un’infanzia infelice: “tutti gli artisti dovrebbero averne una così”. Figlio di Jeanine de Montferrand – all’epoca della sua nascita appena diciottenne – e dell’architetto Roland Tuffaut, il giovane François trascorre la prima infanzia in campagna, allevato dalla nonna materna che per prima gli trasmette la passione per la lettura; solo alla sua morte François andrà a vivere con la madre, donna incostante, egocentrica e anaffettiva che con la sua assenza, mentale e fisica, alimenta il bisogno della lettura che da semplice passatempo si trasforma in un’esigenza di fuga da una realtà che non sembra voler riconoscere al bambino e poi all’adolescente François il diritto all’esistenza.

“Mia madre (…) non sopportava i rumori e m’impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo: era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla”.

La ricerca dell’amore mancato, e di un’identità avvertita come precaria, fasulla, non salda nell’assenza di un rispecchiamento affettivo, rende François un adolescente irrequieto; in fuga da tutto – la scuola, la famiglia, se stesso – a tredici anni, curiosando nei diari del padre, “inciampa” nella rivelazione sulle sue origini: Roland Truffaut, pur avendolo riconosciuto, non è suo padre biologico. La scoperta segna indelebilmente la sua adolescenza e getta le basi, personali e artistiche, di tutta la successiva carriera del regista: quell’immaginarsi figlio di qualcun altro, quella fantasia che Freud chiamò romanzo familiare e che all’improvviso si concretizza in tutto il suo carattere di amara veridicità, diventando più reale della realtà stessa, lo tormenterà per tutta la vita, diventando uno dei temi ricorrenti della sua produzione filmica, non soltanto nel ciclo di Antoine Doinel – alterego su pellicola del regista affidato alla recitazione di Jean-Pierre Léaud, la cui vita viene raccontata a distanza di anni in ben quattro lungometraggi e un corto, costituendo un caso cinematografico senza precedenti – ma anche, tra le righe, in numerosi altri suoi lavori. La ricerca e insieme il rifiuto delle origini, l’ambivalenza del rapporto con le donne, viste come scostanti, lontane, irraggiungibili, creature quasi mitologiche da ammirare e temere, dispensatrici del bene e del male – in tutte le donne della sua vita, quelle vere e quelle raccontate sullo schermo, François Truffaut tenterà di tracciare, ridisegnandola per affinità o per contrasto, un’immagine della madre austera e misteriosa, inaccessibile e insoddisfacente – l’irrequietudine di fondo che permea il carattere dei suoi personaggi maschili, sempre in bilico tra la rassegnazione e la tensione spasmodica verso un’ideale irraggiungibile perché inesistente: sono questi i nodi cruciali che si rincorrono nelle storie raccontate dal cinema di François Truffaut. Un cinema che, proprio negli anni Cinquanta, sta attraversando quella virata “intimista” che, rifiutando i dogmi impersonali di quello che sarcasticamente veniva definito il “cinema di papà”, un modo stucchevole e poco veritiero di raccontare la realtà da dietro la macchina da presa, accende ora i riflettori sull’interiorità del regista, di cui la pellicola è mero strumento di comunicazione e manifestazione. Il cinema della Nouvelle Vague si fa mezzo per raccontare se stessi, ogni fotogramma reca impresso a fuoco il marchio indelebile e inconfondibile del suo realizzatore: la personalità tormentata di Truffaut, coi suoi soggetti ricorrenti, le esistenziali domande senza risposta e la ricerca di un senso da dare alla propria vita attraverso la ripetizione delle esperienze passate, trova in questa nuova corrente un canale elettivo di espressione.

L’incontro parigino con Andrè Bazin, fondatore della rivista di critica cinematografica i Cahiers du Cinéma, con cui François Truffaut collaborerà a lungo, gli aprirà le porte del mondo del cinema: André Bazin rappresenterà per lui quel surrogato di figura paterna che François non ha mai avuto. Anche quando, ormai trentenne, riesce a risalire all’identità del vero padre, un dentista ebreo, François sceglie la via della rinuncia. Ormai è troppo tardi per colmare quella lacuna ancestrale, quel vuoto delle origini intorno al quale si è avvolta e risvoltata, come su di un perno, tutta la sua vita; così come nessuna delle sue donne, da Madeleine Morgenstern a Fanny Ardant, riuscirà a eclissare l’immagine di quella madre, onnipotente e fallica, che sempre ispirerà le figure femminili dei suoi film, in una perfetta osmosi in cui vita e cinema si fondono l’una con l’altro e si influenzano e si raccontano a vicenda, sfuocando quella linea di demarcazione che distingue realtà e fantasia, verità e finzione. François Truffaut ha senza dubbio questo, tra gli altri meriti: aver conferito allo schermo un carattere di veridicità che forse mai aveva avuto prima d’allora. Il cinema di François Truffaut racconta la vita, con tutte le sue contraddizioni e le sue assurdità; chi vuole sognare un’ idillica quanto inesistente realtà rimarrebbe deluso, peggio, scottato. Il risveglio del cinema non è mai stato tanto delicatamente brusco.

Giuliana Gugliotti

Riproduzione Riservata ®

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
Ti piace questo articolo? Condividilo: