Fabrizio de Andrè, l’Omero dei tempi moderni

Un'immagine del cantautore negli anni Settanta

Saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura.

(Fabrizio de Andrè, Khorakhané, Anime Salve)

Fabrizio de Andrè (1940-1999) ci è riuscito: se dovessi pensare a lui in vesti diverse da quelle del grande cantautore che è stato, lo vedrei sicuramente indossare gli abiti sgargianti e un po’ ridicoli di un menestrello di corte. Non un buffone, ma un cantastorie. Un Omero dei giorni nostri, che alla lira sostituisce la chitarra per cantare nuove leggende, quelle metropolitane dei poveri e dei reietti, in un mondo in cui gli dei sono scesi in terra e si sono fatti uomini e le storie da raccontare si rivestono della prosaicità quotidiana della vita dei quartieri popolari. Puttane, ubriaconi, impiegati e terroristi. Immigrati, deformi, orfani e omosessuali. Come una corte di fantasmi che accompagni un veggente, questi sono i personaggi che emergono dalla lirica di Fabrizio de Andrè, prendono corpo come spettri evocati da un altrove sconosciuto, si animano di vita propria e raccontano le loro storie per bocca di un messo. Perché non voleva essere niente di diverso da un messaggero (divino?), Fabrizio de Andrè, quando raccontava quelle storie di diversità ed emarginazione.

Storie raccolte in giro per i quartieri malfamati del porto di Genova, quei vicoli bui “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, in cui crebbe e che negli anni Sessanta frequentò abitualmente, nonostante i tentativi dei genitori, borghesi di origine piemontese, di allontanarlo dalle “cattive compagnie” iscrivendolo a istituti privati; storie lette negli occhi dei perdenti, ascoltate dalle voci sussurrate dei reietti, colte e rielaborate a partire da un’immagine racchiusa nei versi di una poesia o di una canzone d’altri.

Già. Perché quando si guarda più da vicino la produzione artistica di Fabrizio de Andrè ci si accorge che la maggior parte delle sue canzoni, testi e musica, sono ispirate a opere altrui. Georges Brassens e Leonard Cohen su tutti, ma anche Jacques Prevert e Edgar Lee Master – alla cui Antologia di Spoon River è interamente ispirato l’album Né all’amore, né al denaro né al cielo – furono i suoi mentori, i cantori di vite cui maggiormente attinse frasi e note per costruire le sue canzoni. Molti pensano a Fabrizio de Andrè come a un ladro di emozioni: i veri artisti non copiano, rubano, e certo lui fu un maestro in quest’arte. A me piace piuttosto pensare a lui come a un cercatore d’oro, che pazientemente setaccia fiumi di cultura per rintracciare oro – o corallo – tra la melma. Fabrizio de Andrè era un timido: non era tagliato per questo mondo, lui che rifiutò le pubbliche esibizioni fino al ’75, a successo ormai raggiunto, e che in seguito riuscì ad affrontare il palcoscenico soltanto grazie al conforto di una cospicua dose di alcool nelle vene.

Da buon timido aveva affinato quella capacità di osservazione tipica delle personalità introspettive: sapeva cogliere la bellezza del mondo nello stridore dei contrasti, nell’attrito del sangue e delle vene e dei nervi contratti di chi affronta una vita difficile. Se non fosse diventato cantautore probabilmente sarebbe stato dall’altra parte della barricata, tra gli antieroi di cui celebrava le gesta e a cui si sentiva intimamente vicino. Invece seppe appuntare lo sguardo e tenerlo fermo laddove altri l’avrebbero distolto, incuranti o disgustati o offesi, a rintracciare frammenti di poesia nel degrado delle realtà contemporanee e a cucirli insieme con il filo sottile della sua creatività, che sempre si palesa tra le righe di ogni suo brano – anche laddove si tratti di una semplice traduzione.

Personalità sfuggente e atipica, con quelle pezze colorate raccolte in giro per il mondo si cucì un vestito di Arlecchino che calzava a lui e a lui solo, per mostrarsi al mondo con meno vergogna. Proprio come si dice di Omero, raccolse le storie che venivano a bussare al suo animo sensibile in una narrazione unitaria e coerente, trattandole con rispetto e conferendogli quella dignità che ogni vita dovrebbe meritare.

È così che mi piace pensare a Fabrizio de Andrè: un cercatore d’oro, oppure un tessitore. Un uomo che a mostrarsi al mondo in prima persona si sarebbe sentito nudo, e per pudore ha avuto l’esigenza di coprirsi. Ma che nonostante questo si vede, e si sente, sotto quegli abiti che si è cucito addosso, e ogni tanto emerge da dietro la maschera con uno sguardo o un gesto della mano, una parola detta con voce malferma o una nota cantata con più vigore. Inconfondibile come pochi.

Giuliana Gugliotti

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