Zero Dark Thirty, l’ora buia in cui l’America catturò Bin Laden

Jessica Chastain è candidata all’Oscar come migliore attrice protagonista per il ruolo di Maya in Zero Dark Thirty

“Zero Dark Thirty”, nel gergo militare americano indica 30 minuti dopo la mezzanotte, quando il buio è così fitto che puoi colpire il nemico senza essere visto. E’ in un’ora come questa che la notte del 2 maggio 2011 i Navy Seals americani penetrarono nel compound di Abbottabad, in Pakistan, uccidendo Osama Bin Laden.  Quella notte fu scritta la parola fine alla “più grande caccia all’uomo della storia”, portata ora sul grande schermo da Kathryn Bigelow che, a tre anni dal Premio Oscar conquistato con The Hurt Locker, torna a parlare di storia e di guerra ripercorrendo le tappe fondamentali e i retroscena delle indagini che portarono alla morte di colui che, dopo l’11 settembre 2001, era divenuto il nemico numero uno degli Stati Uniti. L’11 settembre 2001. Una tragedia che ha colpito al cuore gli Stati Uniti d’America. Ed è proprio da questo avvenimento che ha inizio Zero Dark Thirty. Ascoltiamo (non vediamo) la paura di morire nelle voci disperate delle persone intrappolate nelle Torri Gemelle il giorno dell’attentato. E’ l’unica, ma necessaria, concessione emotiva che la regista fa in 155 minuti di film. Subito dopo ci spostiamo in una cella angusta di uno dei tanti “black site” della Cia in Pakistan; un prigioniero viene pestato, denudato, legato con un guinzaglio al collo come un cane e sottoposto alle più sfiancanti forme di tortura, come il waterboarding, l’annegamento controllato, per la prima volta mostrato sullo schermo. Maya (Jessica Chastain) assiste senza battere ciglio alle sevizie che il suo collega Dan (Jason Clarke) infligge ad Ammar che, sfinito, farà un nome: Abu Ahmed Al-Kuwaiti. E’ l’indizio che per Maya diventa un’ossessione. La donna è l’unica ad essere convinta di poter arrivare al covo di Osama seguendo le tracce lasciate dal suo più fedele messaggero. Passeranno anni, e quando finalmente Maya riesce a mettere insieme tutti i tasselli del mosaico,la Cia ancora non le crede; serviranno altri 155 giorni prima che il presidente Obama dia il via libera all’operazione.

Candidato a cinque premi Oscar, Zero Dark Thirty è il frutto di un lungo e minuzioso lavoro di ricerca; Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal hanno attinto da una quantità enorme di documenti e interviste, dandogli una forma cinematografica che fosse sufficientemente accattivante, nonostante la complessità della materia e la vicinanza temporale degli eventi narrati.  Il risultato può dirsi centrato a pieni voti. Lo cronistoria delle indagini ci viene mostrata con un approccio registico rigoroso e distaccato, quasi da documentario, che non scade mai in gratuiti sentimentalismi patriottici, né scende a compromessi con lo spettatore quando si tratta di mostrare sullo schermo, in tutta la sua barbarie, i metodi poco ortodossi usati dalla CIA durante gli interrogatori dei prigionieri. Tuttavia per un’abbondante ora e mezza il film soffre di una certa lentezza narrativa; con il passare del tempo però il ritmo cresce d’intensità, e con il raid notturno dei “canarini” nel bunker di Abbottabad la trama inizia finalmente ad entrare nel meccanismo della suspense e Zero Dark Thirty ritrova la sua essenza di film d’azione. Una sequenza buia ma coinvolgente grazie alle soggettive a infrarossi dei visori notturni indossati dai marines che in mezzo a esplosioni e sparatorie ci portano fin dentro gli angoli più remoti della “tana del lupo”,  fino a stanare un nemico che hanno l’ardire di chiamare per nome: “Osama”.

Una superba Jessica Chastain, lanciatissima nella corsa all’Oscar per la Migliore interpretazione femminile, dà corpo alla combattiva Maya, una donna dotata di carisma e di una forza di volontà fuori dal comune. Quando tra lo scetticismo generale, il capo dell’Agenzia Leon Panetta (James Gandolfini) le chiede se è sicura che Bin Laden si trovi ad Abbottabad, lei risponde “al 100%”. Ma dietro tanta sicurezza c’è comunque una donna fragile. E quando, completata la missione, Maya sale sull’aereo militare che la riporterà a casa, la telecamera indugia sul suo volto dove non c’è sollievo, ma una lacrima: un pianto che non è di gioia per la morte del nemico, ma spaesamento, vuoto esistenziale ora che la sua sete di vendetta si è prosciugata, la sua ossessione finita.

Enrica Raia

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