Sartre, Vendola, Grillo, Rodotà: un’ipocrita avversione al semi presidenzialismo

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Negli ultimi mesi nel nostro paese si sta parlando di semi-presidenzialismo come riforma costituzionale

Innanzitutto è giusto spiegare cosa s’intenda per semi-presidenzialismo.
Il paese conosciuto come semi-presidenzialista (in apparenza molti stati dell’Africa lo sono, ma in realtà essi sono governati da una dittatura) per eccellenza, è la Francia.
Il Presidente della Repubblica francese è eletto dal popolo, assieme col parlamento (che a volte può avere una maggioranza diversa dal partito del Presidente): il Capo dello Stato elegge quindi un Presidente del Consiglio (che il Capo di Stato può revocare) che a sua volta deve ottenere la maggioranza del parlamento per governare.
Al contrario il Presidenzialismo puro prevede che il Presidente della Repubblica sia contemporaneamente premier.
La formula semi-presidenzialista ha trovato l’opposizione di Beppe Grillo, di Vendola e di Rodotà, per la semplice motivazione che Berlusconi potrebbe usufruirne per creare una dittatura.
In primo luogo, il buon senso vuole che una riforma istituzionale sia scelta per la sua validità e non perché poi ne possa usufruire una persona.
In secondo luogo è curioso che proprio Beppe Grillo abbia queste motivazioni, dato che lui stesso tenda ad atteggiarsi a “dittatore”: nei confronti dei suoi parlamentari, verso i giornalisti (che minaccia e vieta di riprendere i propri comizi) e ultimamente anche verso il parlamento (le ultime definizioni ricordano fin troppo alcuni discorsi di Mussolini).
Curiosa è anche la posizione di Rodotà, probabilmente perché legato al “Movimento Cinque Stelle”, che da costituzionalista definisce “inquietante” una riforma che la Francia segue da tanti anni.
Seguendo realmente motivazioni ideologiche, dovrebbero temere il governo attuale di Hollande (che al contrario è esaltato) o quello Sarkozy (con la “rossa” Carla Bruni a fianco) o di Mitterand, tanto per citare alcuni Capi di Stato francesi stimati dalla sinistra.
In realtà rileggendo i giornali del 1958, si scopre che anche l’idea riformatrice di De Gaulle fu fortemente criticata da una personalità di ben diverso spessore, a confronto dei nostri politici odierni, ossia il filosofo Jean Paul Sartre, fondatore dell’esistenzialismo.
La situazione politica in Francia prima del 1958 era molto instabile: vigeva una democrazia parlamentare simile alla nostra, ove i governi erano di brevissima durata e il Presidente della Repubblica aveva dei compiti prettamente notarili.
Il Generale Charles De Gaulle, leader e vera anima della resistenza francese durante l’invasione nazista, volle creare una gran riforma istituzionale e promulgò un referendum che trasformò il semi-presidenzialismo in legge: la Francia, usando una terminologia che piace molto all’Italia odierna, passò dalla “ quarta” alla “quinta” repubblica.
Inizialmente la riforma richiedeva l’elezione del Presidente della Repubblica da parte di un organismo apposito, in seguito (1962) l’elezione avvenne a suffragio universale.
Jean Paul Sartre bollò come dittatura, la riforma di De Gaulle (il referendum era definito addirittura un plebiscito): parlando di violenza, ricatti e addirittura di restaurazione monarchica.
Essendo anche lui contrario alla confusione della “Quarta Repubblica”, affermò che la nuova democrazia doveva provenire dal popolo (dimenticandosi probabilmente che il referendum è per definizione votato dal popolo).
Il Generale De Gaulle dava alla popolazione delle colonie la possibilità di votare il referendum e quindi anche agli stranieri: questa decisione sarebbe un invito a nozze per la sinistra italiana, mentre era tacciata da Sartre come opportunista (una sorta di specchietto per le allodole di un’indipendenza che effettivamente sarebbe avvenuta pochi anni dopo).

Come i partiti politici italiani odierni, Jean Paul Sartre non criticava il semi-presidenzialismo in quanto tale, ma in quanto promulgato da De Gaulle, quindi un’opposizione non ideologica ma dichiaratamente personale.
Probabilmente il gran filosofo dimenticava che il Generale De Gaulle, pur essendo un militare e pur avendo un atteggiamento caparbio, aveva pur sempre combattuto una dittatura: sarebbe stato paradossale crearne subito un’altra, dopo averne sconfitta una.
La posizione di Sartre potrebbe essere dettata da un comprensibile errore di vedute, non potendo sapere che la riforma del 1958 durasse tuttora in Francia, dando al paese transalpino una forte democrazia.
In realtà rileggendo la biografia del filosofo, è evidente una forte incongruenza.
Nel 1952 Sartre era simpatizzante del comunismo sovietico di Stalin, a tal punto da auto-censurarsi una sua opera (“le mani sporche”) per compiacere a Stalin.
Addirittura in quel periodo vi fu una divergenza tra Albert Camus (un altro grande scrittore francese) e Sartre: il primo si allontanava dal comunismo, in segno di protesta verso le purghe staliniste, mentre il secondo, pur essendo perfettamente a conoscenza di tutto, riteneva che l’idea comunista era più importante di migliaia d’innocenti uccisi.
L’allontanamento di Sartre dal comunismo dopo l’invasione ungherese del 1956 ( quando per altro Stalin era già morto), non giustifica le idee precedenti.
Il gran filosofo quindi, attaccava la riforma di De Gaulle, seguendo un’antipatia personale, ma non come reale ostracismo verso la dittatura, che anzi in tempi precedenti aveva dimostrato di tollerare.
Il giudizio intellettuale di un personaggio come Jean Paul Sartre deve essere disgiunto da quello politico, ed inoltre non è giusto comparare un genio con i politici odierni italiani (tra cui un comico): resta, però la scarsa onestà intellettuale di entrambi, che non considerano la validità di una riforma, ma la giudicano esclusivamente secondo simpatie personali.

Antonio Gargiulo

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