Riccardo Fedel, il lato oscuro della Resistenza

Riccardo Fedel nella foto del Casellario Politico Centrale

La storia. Non esiste forse materia più controversa, in cui si va più soggetti a errori, revisioni, negoziazioni e rimozioni. La storia italiana ne conta tante, di pagine buie, e una tra queste è quella della Resistenza. La lotta contro i Fasci, il risveglio di un popolo oppresso dalla dittatura e afflitto dalla guerra che, sotto la spinta propulsiva del Comunismo sovietico, si ribella ai suoi tiranni per epurare la nazione dal Nemico Fascista. I libri di storia ci consegnano una versione più o meno unanime dei fatti dell’epoca:  buoni contro cattivi, partigiani contro fascisti. La Resistenza Italiana è oggi nazionalmente riconosciuta come un momento storico di giusta ribellione, una medaglia al valore dell’italianità tanto sbandierata nelle feste comandate, ma così poco sentita nella vita di tutti i giorni.

Settembre 1943. L’Italia, guidata dal maresciallo Badoglio firma l’armistizio di Cassibile, una resa incondizionata all’avanzata Alleata contro l’asse Roma-Berlino. In Alta Italia inizia la Resistenza, guerriglia civile animata da un movimento d’opposizione ideologica al nazifascismo che vede collaborare attivamente diversi gruppi, politici e sociali, diretti verso lo scopo comune della Liberazione Italiana. Sugli Appennini forlivesi nasce, sotto l’egida ideologica del PCI, la Brigata Garibaldi Romagnola, dall’evocativo nome che rimanda a più antichi splendori della storia patria, capitanata da un certo Riccardo Fedel, in arte Comandante Libero Riccardi.
Fedel è un personaggio controverso già prima di diventare partigiano: nato (1906) a Gorizia, all’epoca in territorio austriaco (con la famiglia ottenne lo status di rifugiato durante la Grande Guerra, trasferendosi a Milano), Riccardo si iscrisse, appena tredicenne, ai Fasci Italiani di combattimento di Mestre, per poi riscoprirsi comunista a diciassette; arruolatosi tuttavia nel Regio Esercito, ne fu congedato con l’accusa di azione antifascista, e più tardi fu condannato a tre anni di confino – dopo un arresto per porto d’armi abusivo e un sospettato coinvolgimento in un attentato – come probabile attentatore alla vita del Duce. Inizia così la sua “carriera” di confinato politico, che lo vedrà esiliato in giro per l’Italia, dalla Basilicata alle Isole Termiti, fino al concesso rientro in Veneto, dove vivrà tra Mestre e Milano sotto stretto controllo come sorvegliato politico.
È solo all’entrata in guerra dell’Italia (1940) che Fedel inizia attivamente la propaganda antifascista che lo porterà, durante la Resistenza, a diventare personaggio di spicco nell’ambiente comunista, attraverso la fondazione del gruppo Libero prima, della Brigata Garibaldi poi, e infine grazie alla costituzione della prima Repubblica antifascista Italiana, il dipartimento del Corniolo. Fin qui i fatti documentati e univoci: da questo punto in poi l’immagine di Riccardo Fedel si dirama in una serie di biforcazioni storiografiche che lo vedono, alcune, un abile comandante con l’unica pecca di essere troppo lontano dagli ideali del PCI, altre, un pessimo capo, un disertore e traditore, sacrificato sull’altare della giustizia universale e della libertà della patria. Il fatto resta uno: Riccardo Fedel fu giustiziato, per mano dei suoi stessi compagni partigiani, in circostanze tuttora misteriose. Il suo corpo non fu mai più ritrovato.
Solo a guerra finita, quando le acque politiche italiane si racchetarono, Ilario Tabarri, partigiano e successore di Fedel al comando della Brigata Garibaldi, confessò l’esistenza di una sentenza di esecuzione pervenuta da un tribunale partigiano nei confronti di Fedel, con l’accusa di diserzione, furto, insubordinazione e tradimento. Accuse mai confermate, che tutt’oggi lasciano dubbiosi gli storiografi delle diverse correnti di pensiero. A favore dell’innocenza di Fedel si è recentemente schierato Giampaolo Pansa, che nel libro intitolato “I gendarmi della memoria” (2008) ricorda tutte le vittime (oltre 20mila) della “febbre” della liberazione che colpì l’Italia negli anni ‘40, sotto l’influsso di una “marcia comunista verso il potere” che non si preoccupò di lasciarsi dietro morte e distruzione tra quanti erano anche semplicemente sospettati di non aderire agli ideali della Resistenza. L’estremizzazione mortifera dell’ideologia. Un’ecatombe che gli storici “revisionisti”, filo-comunisti e post-fascisti, avrebbero finito per negare, pur di nascondere i crimini commessi dai “compagni” partigiani per la giusta causa della Liberazione italiana.
Violenza per schiacciare altra violenza. Sangue che lava sangue, morti che si accalcano su altri morti, corpi vacanti che, privati della vita, non hanno più memoria né passato, né verità né ideologie. Carne cruda, carne da macello. La vita umana privata di ogni valore, in nome di un ideale, trascendente al punto da essere indefinibile.

Oggi, con uno storico senno di poi, mi chiedo: esiste davvero una guerra giusta?
Esistono davvero motivazioni valide che possano spingere gli esseri umani a trucidare barbaramente e senza pietà altri esseri umani? Esiste poi davvero tanta differenza tra la pulizia etnica e quella politico-ideologica? Tra l’Olocausto nazista e i crimini della Resistenza?
Forse Riccardo Fedel non sarà stato un eroe; probabilmente fu realmente un traditore. La verità, come troppo spesso accade, è al di là della nostra portata. Ma tanti altri come lui persero la vita, uccisi in nome di ideali che, come sempre, si sono infine rivelati privi di significato e di valore.
Ventimila morti contano davvero così tanto in meno di 6 milioni?
Se oggi più nessuno è disposto a morire per i propri ideali, chiediamoci quanti sarebbero disposti a uccidere il prossimo per interesse. E quanto ne valga veramente la pena.

Giuliana Gugliotti

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