“Renatino” De Pedis: dalla Magliana a Sant’Apollinaire

Una foto di Enrico De Pedis . Dopo 22 anni riesumato ieri il cadavere dalla basilica di Sant’Apollinaire nell’ambito delle indagini sul caso Orlandi. Oggi ricorre l’anniversario della sua nascita.

Se gli l’avessero detto prima, a Enrico De Pedis, che a ventidue anni di distanza dalla sua morte avrebbero violato la sua tomba, e per giunta un giorno prima del suo compleanno (oggi avrebbe compiuto 58 anni), probabilmente avrebbe preferito restare al cimitero del Verano piuttosto che essere trasferito in gran segreto  nella prestigiosa Basilica di Sant’Apollinaire, dimora eterna di papi e arcivescovi tra i più autorevoli di tutto il Vaticano.

Come ci sia riuscito, un criminale di prim’ordine, uno dei capi della temibile banda della Magliana che mise in ginocchio Roma durante gli anni del Terrore, a guadagnarsi l’eterno riposo in un mausoleo della Chiesa Cattolica, e pure con tanto di cerimoniosi omaggi, è una storia lunga, complessa, e sotto molti aspetti oscura. Che tesse insospettate trame tra alcuni dei più influenti protagonisti della storia di quegli anni bui.

La riesumazione, disposta dalla Procura della Repubblica di Roma nell’ambito delle indagini sul caso Orlandi, ha restituito una salma in buono stato. Il volto, visibile attraverso un oblò, conservava ancora qualche vaga traccia delle sembianze del fu “Renatino”, capo della fazione dei Testaccini della banda della Magliana, tanto da rendere quasi superflui i rilievi autoptici. Anche senza si sarebbe potuto dire che era lui.

Ma nel loculo tripartito che ospitava le sue spoglie sono state ritrovate altre 200 ossa. E sono quelle a destare l’interesse degli inquirenti. Che ancora cercano, dopo quasi trent’anni, il cadavere (?) di Emanuela Orlandi, figlia quindicenne di un messo papale rapita il 22 giugno 1983 e mai più ritrovata. Un caso archiviato, fino a quando una telefonata anonima, arrivata alla redazione di Chi l’ha visto? nel Maggio 2005 indicò agli inquirenti la presunta connessione tra la scomparsa di Emanuela Orlandi e le attività di “Renatino” De Pedis, suggerendo di andare a scavare nel sarcofago di Sant’Apollinaire.

Enrico De Pedis, trasteverino di nascita, inizia la sua ascesa al potere legandosi, sotto la guida dell’allora leader dei Testaccini, Danilo Abbruciati detto “er Camaleonte”, al nucleo originario della banda della Magliana. Obiettivo: estromettere le organizzazioni criminali non romane per accaparrarsi la gestione locale di un mercato in espansione che promette affari d’oro. Il traffico di stupefacenti. Grazie alla diffusione capillare dello spaccio sul territorio, la banda cresce, prospera, acquista un potere immenso. Arriva a controllare tutta Roma. La Capitale è nelle loro mani. Mani che sono sempre più in pasta. La Camorra di Raffaele Cutolo, i Nuclei Armati Rivoluzionari di estrema destra, addirittura i Servizi Segreti: da grossa azienda nazionale dell’illecito qual è diventata, la banda si lega ben presto a tutte le altre grandi organizzazioni (criminali e non) che spadroneggiano in Italia.

Ma “Renatino” si dimostra subito più oculato dei suoi compari: con invidiabile fiuto imprenditoriale, inizia a investire i proventi delle attività illegali in attività legali, diventando proprietario di un impero di ristoranti, negozi e imprese edili. Che presto gli fruttano quanto e più degli illeciti. E la ricchezza, si sa, genera avidità. “Renatino” inizia a scalpitare, si rifiuta di dividere i suoi guadagni, legalmente ottenuti, con i suoi soci. Si apre una faida con il clan Proietti, che allarga la scia di sangue già seminata dall’ abitudine cruenta della banda di giustiziare impunemente i suoi oppositori.

Intanto De Pedis si gode la bella vita. Macchine sportive, gioielli lussuosi, cocaina a non finire. Si sente un moderno imperatore di Roma, si fa chiamare “il Presidente”. In una serata trasteverina di inizio anni ‘80 incontra Sabrina Minardi, moglie insoddisfatta e gelosa del calciatore Bruno Giordano. La corteggia, e tra i due nasce una relazione. Lei ha bisogno di un uomo a cui aggrapparsi, lui di una donna con cui condividere almeno in parte i miliardi che gli fruttano le sue amicizie potenti. Licio Gelli, Pippo Calò, Roberto Calvi.

Ma proprio in quegli anni la banda della Magliana comincia a sfasciarsi. I “bravi ragazzi” iniziano a cadere: prima Franco Giuseppucci, detto er Negro, fino ad allora leader indiscusso, assassinato a Trastevere nel 1980 dagli esponenti del clan Proietti; poi gli omicidi di Nicolino Selis, suo aspirante successore, e di Stefano Bontante, testaccino nemico giurato dei corleonesi di Riina e Calò a cui intanto andavano legandosi proprio Danilo Abbruciati e “Renatino” De Pedis.

Così, quando nel 1981 Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, si rivolge a Cosa Nostra per coprire un buco finanziario di 20 miliardi di lire, Enrico De Pedis stringe i suoi rapporti con le sfere più alte del Vaticano. Ed è qui che la storia del boss della banda della Magliana incrocia quella di un’adolescente cittadina vaticana.

In base alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, confermate poi dalla testimonianza del pentito Antonio Mancini, fu proprio “Renatino” ad attirare Emanuela Orlandi in una trappola letale. Il rapimento della Orlandi avvenne appunto nell’ambito dei problemi finanziari con il Vaticano, creditore di un prestito di 20 miliardi di lire. Soldi che, sempre secondo Mancini, non furono mai completamente restituiti. Proprio grazie alla generosa intercessione di De Pedis. Il quale si guadagnò così – e a buon diritto – il titolo di “benefattore dei poveri che frequentano la basilica” di Sant’Apollinaire, “impegnato in iniziative di bene di carattere sia religioso che sociale”.

Il prestigio durò qualche anno. Nell’84, l’arresto lo costrinse a una pausa forzata. Evaso dalla galera, “Renatino” tentò di svincolarsi ulteriormente dagli obblighi nei confronti dei suoi ex soci. Smise di pagare “la stecca” ai familiari dei membri della banda che erano ancora in carcere. Per sbaragliare la concorrenza fece eliminare Edoardo Toscano. Insomma: fuori dal carcere De Pedis rappresentava un problema. Per la banda, perché voleva fare di testa sua. Ma anche perché sapeva troppo di troppe cose. L’unica cosa che non sapeva era che qualcuno gli stava già preparando il funerale.

Ucciso in un vero e proprio agguato militare – erano stati predisposti otto killer, una mobilitazione eccessiva, secondo il pm De Gasperis che si occupò dell’indagine – il 2 febbraio 1990, “Renatino” fu considerato vittima di un regolamento di conti intestino. Anche se il dubbio che a stroncarlo siano stati i servizi segreti resta tuttora. E, davanti a una tale ipotesi, gli onori della sepoltura vaticana sembrano una ben magra consolazione per uno che si sentiva un boss inattaccabile.

Giuliana Gugliotti

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