Referendum: negato voto all’estero per i volontari SCN

Il decreto 2680 "tralascia" di inserire nelle liste dei votanti presso i consolati italiani all'estero i volontari di servizio civile. E' polemica

Imbracciate i fucili, e andate a votare.
Una provocazione, ma non più che tanto. Perché sembra essere proprio questa la (triste quanto bizzarra) conclusione del decreto/legge n°2680 varato dal Governo per la regolazione delle modalità di voto ai prossimi referendum del 12-13 Giugno 2011. Un referendum che già nasce sotto la cattiva stella della disinformazione e dell’ostinato silenzio da parte dei media – se si esclude l’inesauribile fonte del web, che è l’unica a fornire notizie e chiarimenti in proposito. Una faccenda balorda, quella del referendum, che mai come questa volta tocca tematiche di interesse (economico, per i nostri governanti) paragonabile a quello del referendum repubblicano (1948), quando agli italiani fu chiesta l’abrogazione della Monarchia. Energia nucleare, privatizzazione dell’acqua, legittimo impedimento. Sembrano solo formule rituali, da tutti ripetute ma, a ben guardare, prive di significato, un significato che i media non hanno certo contribuito a chiarire. E alla mancata pubblicizzazione di questa scomoda consultazione elettorale, in cui sono in molti a sperare che il quorum non venga raggiunto, ora si aggiunge anche l’onta – per la nostra Repubblica Italiana – della mancata agevolazione a esercitare uno dei principali diritti (e doveri) dei cittadini: il voto.
Già. Perché a votare a questo referendum probabilmente saranno in molti, ma non saranno tutti.
Ci saranno i cittadini residenti in Italia, ovviamente; i dipendenti di organizzazioni statali residenti all’estero, i ricercatori universitari nei paesi stranieri, i militari in missioni di “pace”. Ma non ci saranno i volontari di servizio civile all’estero, 438 giovani che hanno scelto di svolgere l’attività di servizio annuale impegnandosi in uno delle missioni internazionali a cui l’Italia prende parte. Brasile, Argentina, Uruguay. Angola, Benin, Mozambico. Bangladesh, Cambogia, Nepal. Ma anche Canada e USA, Francia, Germania e Paesi Bassi. Sono solo alcune delle destinazioni, comunitarie e non, in cui l’Italia invia da anni i propri volontari per la realizzazione di progetti internazionali. Volontari a cui, in vista dei referendum, è stata negata la possibilità di votare nei paesi in cui si trovano, a lavorare alla “difesa non violenta della Patria”. A niente sono valse le proteste dei rappresentanti nazionali del Servizio Civile, Corrado Castobello e Fania Alemanno, o la ferma opposizione del Democratico Ceccanti. Per queste elezioni, se i volontari attualmente residenti all’estero vorranno esprimere il loro voto, dovranno fare rientro in Italia. E nell’arco di un minimo di 2 a un massimo di 4 giorni – a seconda della lontananza geografica dall’Italia – dovranno ripresentarsi in servizio. Ovviamente a spese delle casse, ormai tutt’altro che floride, dell’Ente Nazionale per il Servizio Civile. Che dal 2007, anno in cui furono avviati al servizio oltre 51mila volontari, a oggi, ha subito un taglio di fondi di oltre il 50%, con poco più di 20mila posti disponibili nell’ultimo anno.
Il decreto 2680, infatti, se da un lato ha previsto la possibilità di voto per una serie di categorie di italiani, residenti all’estero per motivazioni più o meno “patriottiche”, tra cui appunto gli oltre 9mila militari tuttora impegnati in 33 operazioni militari in 21 paesi (Afghanistan, Libano, Kosovo, Bosnia, Pakistan, Israele, Georgia, Sudan…), ha tralasciato tuttavia di inserire nelle liste dei votanti ai consolati italiani i volontari di servizio civile. Una “dimenticanza” che costerà non poco all’istituzione del Servizio Civile Nazionale, in termini economici, ma soprattutto in termini di dignità.
Già, perché come Freud ci ha insegnato, dietro gli atti mancati c’è sempre una motivazione di ordine inconscio. Anche quando avviene a livelli collettivi. E allora una dimenticanza non è più una semplice dimenticanza, ma si veste di significati altri. E a essere tirati in ballo sono discorsi più profondi, che coinvolgono lo “status dei volontari e l’identità del Servizio Civile, mai definiti in maniera decisa e inequivocabile”. Come afferma Castobello, quello della definizione identitaria è un problema atavico del Servizio Civile. Così come atavica è proprio la mancanza in Italia della cultura della Difesa non armata e non-violenta della Patria. Chiunque in Italia si occupa di questo trova davanti a sé ostacoli burocratici relativi al riconoscimento di ciò che svolge per lo Stato. E c’è un disegno di Legge sul Servizio Civile Nazionale bloccato da quasi due anni in Senato”.

Storicamente, il servizio civile nasce come diretto discendente dell’obiezione di coscienza, pratica fermentata nell’ultimo mezzo secolo nell’humus culturale degli anni post-bellici, della rivoluzione non-violenta auspicata da Gandhi e dei movimenti pacifisti sorti (inizialmente negli USA) come rifiuto di ogni forma di conflitto armato, scaturito dalla vista degli orrori – trasmessi per la prima volta in diretta tv – della guerra in Vietnam. Una serie di circostanze storiche che aumentarono considerevolmente il numero dei giovani che rifiutavano la leva militare obbligatoria, preferendo intraprendere il servizio civile, tanto da “costringere” lo Stato Italiano a riconoscerne (1998) il valore di risorsa sociale, e poi a istituire (legge n°64/2001) il Servizio Civile Nazionale, aperto anche alle donne e inteso come un “percorso di formazione sociale, civica, culturale e professionale attraverso l’esperienza umana di solidarietà sociale, attività di cooperazione nazionale ed internazionale, di salvaguardia e tutela del patrimonio nazionale”.
Un’istituzione che però, dieci anni dopo la sua ultima, ufficiale fondazione, ancora fatica, pur restando una risorsa collettiva impareggiabile, a trovare una propria definizione burocratica, come dimostra la vicenda del mancato riconoscimento del diritto di voto all’estero per i volontari SCN.

Cosa cerca di comunicare uno Stato che, professandosi repubblicano e pacifico, rinnega a un suo Ente, germogliato nella contemporanea cultura del patriottismo non-violento, una definizione e un riconoscimento specifici? Che nega il diritto di voto ai volontari di servizio civile, difensori non armati della Patria, concedendolo invece ai suoi soldati? Forse l’Italia non è ancora pronta a restituire al mondo, e ai suoi cittadini, quell’immagine di paese progressista e liberale che si impegna a costruire pace, solidarietà, impegno sociale. Per andare a votare, non ci resta che imbracciare i fucili.

Giuliana Gugliotti

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