Quella “assenza” che uccide

Davvero si può morire a diciassette anni con un proiettile conficcato in testa? Si. E non bisogna nemmeno andare troppo lontano per trovare questa risposta: basta restare nei vicoli ombrosi e malfamati dei quartieri popolari di Napoli, dove lo Stato è un miraggio insperato e la civiltà non arriva, se non nella sua forma più brutale e arcaica, l’impietosa legge del taglione, l’”occhio per occhio dente per dente” a cui è impossibile sottrarsi. E’ qui che la morte abita, in questi luoghi dimenticati dalla legge e dalle istituzioni; qui la morte prolifera, giusta, meno giusta, e colpisce a caso, indiscriminatamente, assecondando le leggi di un Fato capriccioso.

E’ morto ieri sera Anthony, diciassettenne ferito circa una settimana fa da un poliziotto in borghese mentre tentava una rapina a mano armata in una tabaccheria del centro, insieme a un complice diciottenne, ora in stato di fermo. A tutti noi viene da pensare: se l’è meritato. La legge del taglione insita nella mentalità dominante ci spinge a giudicare giusta la morte di chi non avrebbe esitato probabilmente a uccidere a sua volta. E purtroppo questa considerazione diventa vera in un mondo in cui non si può contare su nessuno a parte che su se stessi per difendersi dagli altri. In un mondo in cui l’altro non è più un possibile amico, ma un nemico certo da cui guardarsi, o da aggredire e depredare prima che lui aggredisca noi. La morte qui è figlia della violenza, la violenza è figlia della disperazione, la disperazione figlia della solitudine e dell’abbandono. Nessuna via di scampo. La morte è forse l’unico modo che resta per sfuggire a una realtà che offre solo degrado e aberrazione.

E di aberrazione Anthony ne aveva vista tanta, con un padre ucciso allo stesso modo, mentre tentava una rapina alle poste, e un fratello caduto sotto il fuoco della camorra per aver alzato troppo la testa. Che alternative può avere un ragazzo dopo aver vissuto tutto questo? La risposta è: molto poche. Anthony non ha fatto altro che ripetere quello che suo padre e suo fratello avevano fatto prima di lui. La morte qui è la spia di un disagio sociale di cui siamo tutti vittime. Vittima è una madre che vede morire due figli perché è incapace di dare loro un’educazione, e non trova di meglio da fare che accusare di “cattiveria” un poliziotto che ha reagito come chiunque avrebbe fatto davanti alla pericolosa minaccia di una violenza ingiusta; un ragazzo che muore a diciassette anni cercando disperatamente di far sentire la sua voce a una società che non gli offre alcuna opportunità; un tutore della legge, che poi in fondo è sempre un uomo come gli altri (e che per fortuna in questo caso non sarà indagato per omicidio), che per tutta la vita si porterà dietro il rimorso di aver ammazzato un ragazzino, ma sapendo che se non l’avesse fatto probabilmente sarebbe morto insieme ai tabaccai, padre e figlio, altri due innocenti; un onesto lavoratore che ogni mattina e ogni sera, alzando e abbassando la saracinesca del suo negozio trema di paura al pensiero di una rapina, lui come tutti gli altri commercianti della zona. Siamo tutti vittime dello stesso cancro istituzionale, che invade – e uccide – con la sua assenza.

Dove sono le autorità? Dove sono i governi e i partiti, dove le volanti della polizia? Dove sono i centri di riabilitazione per i minori, ma prima ancora gli spazi verdi, le aree di gioco per i bambini, le attrezzature sportive che altrove sono gratuite? Dov’è la tanto discussa ma mai realizzata prevenzione, che prima di tutto si costruisce nella tutela della qualità della vita dei cittadini? Qui i nostri bambini giocano per strada, e quello che imparano è quello che vivono: violenza, terrore, prevaricazione. Poi quei bambini crescono, e per tutta la vita si portano dietro quel rancore rabbioso, quella sensazione di non essere mai stati visti, tutelati o riconosciuti, quella percezione di abbandono e indegnità. E quando la rabbia è troppo soverchiante per diventare giusta indignazione a servizio di una buona causa, o tutt’al più passiva rassegnazione a subire, allora esplode, si trasforma in violenza. E sono sempre i più deboli, i più bistrattati a farne le spese. Questa macchina statale è come una cattiva madre, che non nutre i suoi figli ma li fa crescere nella miseria (o meglio, nella munnezza), per poi lasciarli a scannarsi l’uno con l’altro e soccombere con essi, sempre più corrotta, sempre meno efficiente, sempre più schiacciata dalle ritorsioni dei suoi stessi figli diventati predoni, che cercano disperatamente di ottenere con l’imbroglio e la prepotenza quello che di diritto gli sarebbe spettato, ma che non hanno mai avuto. A questa “madre” incurante ciascuno reagisce a suo modo, chi meglio, chi peggio. Qualcuno trova la forza di diventare un cittadino onesto, cerca di mettere le sue azioni a servizio degli altri, di migliorare il luogo in cui vive; qualcun altro semplicemente china la testa e si rassegna alla paura, all’omertà, alla sopportazione. Qualcun altro ancora sceglie intenzionalmente, o – molto più spesso – si ritrova quasi per caso sulla via della delinquenza, e una volta entratoci non ha la forza – o la voglia – di uscirne. Stavolta è toccato a Anthony, e allora tutti a puntare il dito accusatore contro mariuoli e delinquenti. La realtà resta una sola: qui siamo tutti figli della stessa madre strafottente e egoista.

Giuliana Gugliotti

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