Per un quarto d’ora di celebrità: Andy Warhol, gli amari risvolti della modernità

Autoritratto di Andy Warhol, 1986

Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti.

Chissà se ci credeva davvero, Andy Warhol, quando pronunciò questa frase. Nato a Pittsburgh da una famiglia di origini slovacche, il giovane Andy fu subito affascinato dallo sfavillante mondo della pubblicità: dopo gli studi di arte fu attratto dall’irresistibile magnetismo della Grande Mela, dove iniziò a lavorare come pubblicitario. Imprenditore di se stesso, cinque anni dopo la sua prima esposizione di disegni ispirati ai racconti del’amico Truman Capote, fondò (1957) la Andy Warhol Enterprises, una vera e propria azienda volta alla commercializzazione delle sue opere d’arte. Intorno alla sua figura carismatica si radunò ben presto una cerchia di giovani, sfrontati e irriverenti artisti emergenti, che costituirono lo zoccolo duro su cui si eresse la famosa Factory, centro pulsante della pop art nascente: l’idea di base era quella di trasformare l’arte in un prodotto di consumo. Per farlo, l’arte doveva spogliarsi di inutili ermetismi estetici e “abbassarsi” alla quotidianità, di cui si faceva interprete e celebratrice: l’opera d’arte viene serializzata e espropriata della sua irripetibilità, si trasforma in un bene di lusso immediatamente accessibile.

Andy Warhol aveva colto appieno l’essenza di una società che all’epoca era in fermento, e cambiava alla velocità della luce nutrendosi di se stessa – e consumandosi. Aveva capito che in un mondo siffatto non c’era spazio per l’Artista, quello con la A maiuscola: ognuno era a suo modo un po’ artista. Artista della vita, esaltatore di se stesso. Ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità. Chissà se Andy ci credeva davvero, quando lanciò quella profezia futuristica – ma nemmeno troppo. O se era soltanto l’ennesimo inconsapevole “trucco” da prestigiatore camaleontico per guadagnarsi sguardi di ammirazione e affermare la propria eccentricità davanti a un mondo che la modernità aveva serializzato e stigmatizzato in automatismi consumistici. Certo Andy non avrebbe mai previsto di diventare suo malgrado protagonista di un infernale quarto d’ora di fama, che simbolicamente segna l’ingresso definitivo nell’era della spersonalizzazione e della cultura di massa.

Il 3 giugno 1968 – anno cruciale della ribellione contro i sistemi politici precostituiti – Valerie Solanas visse quei suoi famosi quindici minuti di celebrità: sparando a Andy Warhol. Che si salvò per miracolo, e da allora non fu mai più lo stesso. Un attentato rivolto insieme alla modernità consumistica e alla sua negazione, all’uomo che trasforma la creatività in guadagno e all’artista che cerca di salvare l’arte stessa dall’auto-collasso adattandola alle esigenze della società commerciale, espropriandola di significati specifici e ponendola alla portata di tutti, rendendola pop, popular.

Già. Perché se è vero che Andy Warhol è personalità emblematica della moderna vacuità, in cui l’edonismo greco sembra essere tornato alla ribalta, ma svuotato dei suoi significati filosofici per trasformarsi in una corsa al godimento immediato e al consumo sfrenato di piaceri che si susseguono senza posa, è anche vero che a quest’andazzo Andy stesso, che in fondo era un artista, cercò non tanto di mettere un freno, quanto piuttosto di dare un significato attraverso la sua arte, che nella reiterazione ossessiva di contenuti dai significati quotidiani, quasi banali, tentava di rappresentare una realtà – culturale ma non solo – che ormai era fin troppo nuda, pornografica piuttosto che erotica, priva di contenuti e imbellettata in forme pompose, accattivanti – e vacanti.

La pop art di Andy Warhol celebra un vuoto di significazione. Quello stesso vuoto di cui Andy rimane vittima impotente: la perdita di riferimenti etici e psichici di una società allo sbaraglio, il cui unico obiettivo è guadagnare per consumare e consumare per guadagnare (“arte” perfettamente esaltata dall’opera warholiana) genera solitudine e depressione, partorisce incompresi e fanatici inclini a gesti estremi. Valerie Solanas era figlia di quello stesso mondo che Andy Warhol esaltava. Abusata dal padre durante l’infanzia, alle spalle un passato di prostituzione, Valerie approdò alla Factory newyorkese di Andy Warhol con un chiodo fisso in testa – castrare il maschio per porre fine a un’ingiusta, secolare supremazia di lui e alla conseguente segregazione del sesso femminile – e un dramma teatrale in mano, Up your ass, storia di una prostituta e di un vagabondo. Andy, che all’epoca si era già cimentato nella regia di cortometraggi a sfondo sessuale, che lui definiva arte e qualcun altro pornografia (Blow Job, film di 35 minuti in cui la telecamera riprende fisso il volto di un uomo che riceve una fellatio risale al 1963, tre anni prima della genesi di Up your ass), accettò di buon grado di visionare l’opera di colei che, seppur un po’ svampita, doveva essergli sembrata una promettente artista. Si astenne dal garantirle il successo, ma l’accolse nella “fattoria” in cui allevava giovani talenti come vacche destinate al macello. Le promise che avrebbe letto la sua opera. Ma i giorni passarono, e Andy non si rifece vivo con Valerie. Lei iniziò un assedio telefonico, che si concluse con la confessione di Andy di aver perso il manoscritto. Dinanzi a quell’estremo gesto di noncuranza e svalutazione da parte del maschio, la paranoia di Valerie, che non era mai stata psichicamente stabile, esplose in un tentativo di omicidio. Schizofrenia paranoide, fu la sua diagnosi. Fu internata, e cominciò una lunga carriera di ricoveri a singhiozzo che si conclusero con la sua morte, (1988: Valerie Solanas aveva cinquantadue anni) solitaria, depressa, dimenticata da tutti.

Andy, dal canto suo, fu letteralmente scioccato dall’accaduto. L’idea che la vita fosse, in mezzo a tutte quelle scatole di zuppe Campbell e alle lattine di Coca-Cola, una condizione effimera, certo doveva averlo già sfiorato; ma che la sua vita potesse essere così facilmente stroncata da un’altra persona, questo forse non l’aveva mai pensato prima d’allora. Fu come se la realtà avesse fatto una violenta irruzione nel mondo stucchevole e patinato in cui la sua genialità l’aveva rintanato, perfetto osservatore e supremo duplicatore della realtà.

Prima che mi sparassero, ho sempre avuto il sospetto che, invece di vivere un’esistenza reale, stessi guardando la televisione. Nel preciso istante in cui mi sparavano seppi che stavo guardando la televisione.

Andy si svegliò dal sogno, rifiutandosi quasi completamente di uscire in pubblico. Tuttavia, non volle mai testimoniare contro Valerie Solanas. Forse ne ebbe compassione, chissà; ma io preferisco pensare che si sentisse in qualche modo responsabile – lui che si era fatto interprete e cantore di quella corsa verso un consumismo sfrenato e folle – di quell’atto sconsiderato. Come se in qualche modo avvertisse una giustizia intrinseca nell’essersi ritrovato bersaglio di un gesto che era emblema di un disagio che egli stesso aveva contribuito a fomentare. Questo senza nulla togliere al valore intrinseco della sua opera artistica; perché, si sa, l’arte non ha ragioni sociali, ma è fine a se stessa, pura, sublime espressione della realtà così come l’artista la vede. Andy Warhol è riuscito davvero a rubare l’anima ai nostri tempi, rappresentandoli con acume e un pizzico di necessaria astuzia. Che siano tempi folli, fanatici, deliranti, non è in fin dei conti colpa di nessuno. Né tantomeno sua.

Giuliana Gugliotti

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