Marguerite Duras, l’ “amante bambina” avvolta nel mistero

Scrittrice e regista, colona in Indocina e attivista politica nella Resistenza francese, Marguerite Duras è soprattutto un personaggio misterioso e sfuggente, una donna dalla personalità mutevole e ermetica, che si nasconde, talvolta si confonde, dietro le eroine protagoniste dei suoi romanzi, fino quasi a trasformarsi in una figura essa stessa leggendaria, una voce lacerante, solitaria e inconfondibile nel panorama storico-lettarario della Francia del dopoguerra.

Nata nell’Indocina francese, oggi Vietnam, Marguerite Donnadieu (1914-1996) conosce ben presto povertà e sofferenza, a causa della prematura morte del padre che lascia la famiglia in condizioni economiche quasi disastrose e, poco più tardi, di una madre assente e anaffettiva; perdite seguite, non molto tempo dopo, dalla scomparsa di un fratello fragile e incompreso cui era teneramente legata da un amore protettivo e materno, e, nello stesso anno, di un figlio appena dato alla luce. I primi anni della sua vita, trascorsi a Saigon tra le risaie e i tramonti vietnamiti e caratterizzati da un’instabilità sia familiare che politica, si ritrovano narrati, a sprazzi immaginifici, ne “L’amante”, opera che più tardi consacrerà Marguerite, con lo pseudonimo di Duras, come scrittrice di calibro internazionale, pioniera e fautrice convinta di uno stile narrativo unico, definito onirico e anti-letterario nella sua essenza tagliente che attinge direttamente dall’inconscio.

Le pagine de “L’amante” raccontano, con un incedere crudo e riluttante, a metà tra romanzo e autobiografia narrata in prima persona, la storia d’amore tra la quindicenne Marguerite e un ricco giovane cinese: un amore scandaloso, inconciliabile con le tradizioni, ineluttabilmente destinato alla condanna e a un’inesorabile fine. Alla morte della madre, nel 1934, Marguerite lascia Saigon e si trasferisce a Parigi per completare gli studi: qui incontrerà Robert Antelme, suo primo marito, e Dionys Mascolo, suo futuro amante e secondo marito, nonché migliore amico di Antelme, da cui (1947) avrà anche un figlio. La relazione tra i tre, descritta dallo stesso Mascolo come una maison de verre, assume le tinte oscure di un menage a trois, forse spirituale prima che sessuale, la cui sorte subirà non poco le conseguenze della guerra mondiale e dell’egemonia nazista. Nel 1942 Marguerite inizia a collaborare clandestinamente alla Resistenza, militando nel Mouvement National des prisionniers de guerre, dove conoscerà un certo François Morland, alias Mitterrand, futuro Presidente della Repubblica Francese. In questi anni la sua carriera di scrittrice e la sua stessa vita si intrecciano indissolubilmente alla politica e alla storia nazista e post-nazista: quando Robert Antelme sarà deportato a Dachau come prigioniero politico, sarà lo stesso Mitterrand, dietro preghiera di Marguerite, a trovarlo e a portarlo via dall’inferno del campo di concentramento travestito da ufficiale francese, salvandogli indiscutibilmente la vita. L’episodio segnerà l’inizio di un legame indissolubile tra Mitterrand e la Duras, un’amicizia pluri-trentennale forse innescata dalla scintilla della riconoscenza, ma sicuramente nutrita negli anni da un proficuo confronto intellettuale che alcuni ritengono abbia influito addirittura sulle scelte politiche dello stesso Mitterrand. Un assaggio del loro rapporto si può trovare negli “Entretiens inédits: François Mitterrand – Marguerite Duras” una serie audioregistrata di conversazioni più o meno informali tra la scrittrice e l’uomo politico sui più svariati temi di attualità, edita da Fremeaux&Associés.

A guerra finita, Marguerite continua a dedicarsi alla politica militando nel PCF (Partito Comunista Francese) fino al 1950 – quando verrà espulsa con l’accusa di dissidenza – e impegnandosi attivamente nella battaglia pacifista contro la guerra in Algeria, in contrasto con il potere gaullista. Questi sono gli anni della deriva personale e sentimentale, con la perdita del figlio e il secondo divorzio, ma anche del successo letterario: infatti, nonostante l’esordio in letteratura sia già avvenuto con “Les Impudents“ (1943), è solo con la pubblicazione di “Una diga sul Pacifico” che l’autrice si afferma con i favori della critica nel panorama internazionale, legittimandosi come icona del nouveau roman francese, e consolidando quel suo stile narrativo inconfondibile, che gli esperti definiscono “paratattico”, consistente in un incedere frammentario, cadenzato da frasi brevi che, più che legarsi tra loro attraverso nessi razionali, seguono la logica stringente e inafferrabile dell’inconscio; una scrittura che si affida alle immagini emerse dalla memoria, una memoria che è sua volta fortemente sensoriale e risulta vorticosamente trascinante per il lettore. Uno stile unico, che proprio in virtù di queste caratteristiche attirerà l’attenzione dello psicoanalista francese Jacques Lacan, convinto sostenitore dell’esistenza di un legame atavico tra scrittura e psicoanalisi, che non può non trovare una dimostrazione di elezione nella scrittura della Duras, così fortemente attinta dall’inconscio. Lacan restò appunto affascinato dalla forza evocatrice dello stile narrativo di M. Duras: “Risulta sapere senza di me ciò che io insegno”, disse di lei lo psicoanalista, continuando tuttavia a ritenere che, nello scrivere, Marguerite “non sa quello che fa”, perché “se lo sapesse si perderebbe”. Tra loro nascerà una solida amicizia, tanto che J. Lacan le dedicherà un “Hommage à Marguerite Duras” in chiave psicoanalitica, proponendo una rilettura analiticamente orientata de “Il rapimento di Lol V. Stein” (1964).

Con “Una diga sul Pacifico” inizia un periodo d’oro della carriera di Marguerite Duras, che porterà alla pubblicazione di oltre trenta tra racconti e romanzi, conducendo alla consacrazione ufficiale con il premio Goncourt per “L’amante”: il romanzo fa la sua comparsa nel 1984, in un periodo che vede la Duras impegnata sia sul fronte letterario che su quello cinematografico, ma privatamente devastata dal fantasma dell’alcolismo.

A lungo ignorata dalla critica dopo uno sfavillante successo, dimenticata persino dagli storici editori francesi che negli ultimi anni hanno cessato le ristampe dei suoi romanzi, Marguerite Duras è oggi un personaggio in ombra, una scrittrice ai margini della letteratura contemporanea, che tuttavia non cessa di destare stupore e curiosità nei giovani studiosi di materie letterarie, che in sua memoria hanno fondato un gruppo, “Marguerite mon amour”, allo scopo di trasmettere alle giovani generazioni l’amore per la sua opera.

“L’amante” resta senza dubbio il suo indiscusso capolavoro: qui, più che nella successiva riscrittura, “L’amante della Cina del Nord”, l’autrice si svela, ripescando nei suoi ricordi la “bambina dalla pelle bianca” che era stata, per trasformarla in un personaggio immortale. “L’amante” realizza così la consacrata unione tra la donna e la scrittrice/protagonista, la vita vissuta e quella raccontata, regalando ai posteri un ritratto indimenticabile dell’ “eroina” Marguerite, in cui verità e finzione si confondono al punto da divenire inscindibili, perché, come afferma l’autrice stessa: “La storia della mia vita non esiste. Proprio non esiste. Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea. Ci sono vaste zone dove sembra che ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c’era nessuno.”

Scrittrice amata e odiata dalla critica, regista assolutamente sopra le righe, iniziatrice di un nuovo modo di fare cinema in cui, come nella carta stampata, è ancora la parola (scritta nero su bianco) ad avere il sopravvento sull’immagine, in cui il colore è solo una fonte di disturbo all’espressione e alla narrazione, l’opera di Marguerite Duras ha attraversato alternativamente momenti di fasto e di oblio: definita oniricamente ricca di rimandi immaginifici da alcuni, inutilmente criptica e frammentaria da altri, non smette tuttavia di conquistare un pubblico che, più di tutto, resta ammaliato dalla personalità controversa della donna Marguerite, che aleggia sullo sfondo come uno spettro dalle labili forme e dalle indefinite sembianze, nella speranza di coglierne in extremis, in una frase o in una parola, la sua cangiante, sfuggevole essenza.

Giuliana Gugliotti

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