L’efficacia degli oriundi in nazionale di calcio italiana: un terno al lotto difficile da azzeccare

Enrique Omar Sívori è stato un calciatore e allenatore di calcio argentino naturalizzato italiano. Wikipedia

Enrique Omar Sívori è stato un calciatore e allenatore di calcio argentino naturalizzato italiano. Wikipedia

Lo sguardo è pulito e i connotanti appuntiti, nato da padre svizzero e madre italiana: Ermanno Aebi fu il primo oriundo a giocare nella nazionale italiana; fu convocato in due occasioni (entrambe nel 1920, contro la Francia e la Svizzera) salvo poi, curiosamente, abbandonare l’attività calcistica e dedicarsi all’arbitraggio.

La storia degli oriundi nell’epopea “azzurra”, è stata contrassegnata da ondate di grandi campioni(nel tentativo di creare una squadra competitiva) o da singolari e solitarie figure, come il “pioniere” Ermanno Aebi.
Renato Cesarini ad esempio fu un gran fuoriclasse che vinse ben cinque consecutivi scudetti con la Juventus, ma fu la nazionale a “battezzare” la celeberrima “Zona Cesarini”(vale a dire segnare un goal agli ultimi spiccioli di gioco): nel 1931, durante Italia-Ungheria, segnò un goal all’ultimo minuto, bissando un episodio accaduto mesi prima in campionato.
L’italo scozzese Giovanni Moscardini fu un eroico calciatore degli anni ’20: ferito e mutilato durante il primo conflitto mondiale (fu colpito ad un gomito durante il disastro di Caporetto e perse l’uso del braccio) giocò stoicamente a calcio, vestendo per ben nove volte la maglia azzurra.

A prescindere dai pittoreschi casi isolati, gli oriundi in nazionale giocarono in precisi periodi e secondo specifiche ragioni: si cercò di sfruttarne l’indubbio talento e le esperienze vittoriose in passate competizioni mondiali.

Il primo ad usufruire di questa “scappatoia” fu Benito Mussolini negli anni ’30: l’Italia vinse le prime due competizioni mondiali (1934 e 1938), grazia alla presenza di fuoriclasse oriundi.
Michele Andreolo, Atilio De Maria, Enrique Guaita, Anfilogino Guarisi, Luisito Monti, Raimundo Orsi.
A parte il caso isolato di Mauro German Camoranesi, questa “infornata” d’oriundi fu l’unica vincente, nella storia del calcio nostrano: talvolta l’idea di campione latino si accompagnava a personaggi pittoreschi; Guaita fuggì clamorosamente dall’Italia, negli anni ’30, ed evitò l’arruolamento nella guerra d’Etiopia; Raimundo Orsi era un eccellente suonatore di violino; Luisito Monti era l’antitesi fisica del perfetto sportivo, data la sua stazza era detto “armadio a due ante”.

L’afflusso di grandi campioni alla fine degli anni cinquanta, spinse i dirigenti “azzurri” a sfruttare il titolo di “oriundo” e tentare di formare uno squadrone: evitando le magre figure dei campionati mondiali precedenti (1950 e 1954).
Fu convocato Dino Da Costa (attaccante e goleador brasiliano), il degno compare Edwing Firmani, l’attaccante argentino (fresco vincitore dello scudetto con la Fiorentina) Miguel Montuori e addirittura i protagonisti del vittorioso Uruguay (vincitore dei campionati mondiali del 1950), Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino.

Purtroppo la splendida “montagna” partorì un misero “topolino”: la carriera azzurra di questi (indubbi) fuoriclasse, culminò e terminò nella clamorosa eliminazione della nazionale italiana dai mondiali svedesi del 1958.
La prima e finora unica mancata qualificazione fu l’amaro frutto di un’ambizione di gran potenza, forte dei fuoriclasse che la nazionale aveva tra le sue file.

Il fiasco clamoroso non scoraggiò la classe dirigente azzurra, che decise di ritentare l’impresa quattro anni dopo: stavolta schierando altri giocatori ed illudendosi che l’esperienza precedente derivasse da un amalgama sbagliato.
In questo caso il parco degli oriundi dava la massima sicurezza: fu tentato di ripristinare il trio argentino degli “angeli dalla faccia sporca” (Valentin Angelillo, Humberto Maschio e Omar Sivori) e furono convocati Angelo Sormani e addirittura il grande Josè Altafini (al culmine della sua lunga carriera).

L’obbiettivo era compiere una bella figura ai campionati mondiali in Cile del 1962, cancellando il vergognoso ricordo del 1958: l’altitudine cilena sarebbe stata tollerata dai campioni argentini e brasiliani.
Stavolta la nazionale si qualificò alla fase finale, mostrando anche un bel gioco: l’Italia oriunda non sfigurò in realtà (attraverso un buon pareggio contro la Germania Ovest e la vittoria contro la Svizzera) ma purtroppo incappò nei padroni di casa del Cile e fu sconfitta e i suoi giocatori sonoramente picchiati (Maschio si ruppe un naso).
Nonostante la figura dignitosa, l’esperienza degli oriundi in nazionale fu archiviata e per molti anni mai più replicata.

Solo ultimamente la “moda” è ricomparsa. Si fa di necessità virtù, essendoci penuria di calciatori nostrani.
Stavolta gli oriundi non sono campioni riconosciuti ma scarti di grandi squadre o giovani dall’incerto futuro.
Forse questa è la chiave per ripetere i fasti degli anni ’30: avanzare a fari spenti e senza ambizioni, magari evitando squadre di grandi fuoriclasse stranieri, che per altro non accetterebbero di giocare nella nazionale italiana.

Rey Brembilla

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