La famiglia che uccide

La famiglia non è più un luogo sicuro. Lo dimostrano i fatti di cronaca, che sempre più vedono coinvolti in violenze e omicidi gli stessi congiunti delle vittime. Lo conferma l’ultimo, tragico avvenimento di Vercelli, che ha visto un marito e padre di famiglia uccidere la moglie per poi costituirsi. Alle 3.45 del mattino del 7 Febbraio, nell’abitazione di via Matolo a Riva Valdobbia (Vercelli), Maria Rosa Vaglio è stata uccisa da quattro coltellate inferte dal marito (Daniele Sciatriani). Pare che l’omicida durante la notte si sia munito di un coltello, preso in cucina, con il quale ha ripetutamente colpito sua moglie, nonostante in casa ci fosse la più piccola dei tre figli. La figlia quattordicenne, svegliata dalle urla della madre, è sopraggiunta in camera dei genitori quando ormai per la madre non c’era più nulla da fare. All’arrivo dei carabinieri l’omicida ha confessato: le uniche parole che ha pronunciato in lacrime sono state “Mio dio, che cosa ho fatto”. Non si conosce al momento il movente che ha spinto il sig. Sciatriani a compiere questo tragico gesto, ma si suppone che vi fossero dei dissapori in famiglia.

La tragedia di Vercelli giunge a confermare il primato dei delitti in famiglia nelle statistiche degli omicidi compiuti in Italia: secondo un analisi dei moventi dei delitti familiari, al primo posto si collocano per l’appunto gli omicidi derivanti da liti e dissapori (24,6%); al secondo posto si colloca, invece, l’omicidio passionale, dovuto per esempio alla gelosia come movente, e, infine, una percentuale inferiore di omicidi commessi per interessi di vario genere, non di rado pecuniari. In alcuni casi sono le separazioni e i divorzi burrascosi a generare un esito drammatico quale l’uxoricidio, l’omicidio del coniuge in generale, soprattutto se la coppia è coinvolta in un conflitto per l’affidamento dei figli.
Secondo gli studi riportati da Holmes il 50% delle coppie sposate ha vissuto l’esperienza di almeno un episodio violento al suo interno, mentre Mann afferma che il 70% delle violenze domestiche, dalle lesioni, allo stupro, all’omicidio è compiuto dal marito, dal compagno o da un ex, ed ha come vittima una donna. Sempre secondo quanto emerge dal rapporto Eures-Ansa l’omicidio familiare prevale al Nord Italia, in particolare in Lombardia, Liguria e Toscana, con il 48,2 %, seguito dal Sud (31,8%) e dal Centro (20%). Il fenomeno è in aumento, e si verifica, con la più alta percentuale di casi, all’interno del rapporto coniugale; seguono quei delitti in cui le vittime sono ex coniugi o ex conviventi e gli omicidi che avvengono all’interno di relazioni non formalizzate. Infine, con una percentuale minore, troviamo gli omicidi che vedono implicati genitori (parenticidio), figli (infanticidio) e fratelli (fratricidio).
I delitti familiari sono compiuti essenzialmente da soggetti di sesso maschile (il 95%) di mezza età; si tratta generalmente di individui che si sentono inadeguati e che hanno subito degli abusi durante l’infanzia. Da un punto di vista psicologico si suppone che l’impotenza mostrata nell’infanzia li porti ad esercitare un estremo controllo sul proprio nucleo familiare che, a causa dei problemi quotidiani legati alla disoccupazione, a eventuali conflitti, tradimenti ecc., diventa difficile da gestire. Sono definiti “annientatori familiari”, e sono i più oscuri ed inspiegabili tra gli omicidi, poiché in  questi casi l’assassino si toglie la vita o confessa immediatamente.
Secondo Neil Websdale, professore presso la Northern Arizona University, si tratta di uomini che passano dall’essere dei cittadini civili e rispettabili a omicidi coercitivi; figure controllanti e qualche volta abusanti che fanno derivare la loro autostima dall’autorità che sono in grado di esercitare in casa. Questo comportamento spesso porta il matrimonio alla crisi, spingendo la moglie e i figli a cercare di andarsene. La perdita di potere che ne deriva genera sentimenti di umiliazione e può spingere il padre a cercare di riprendersi il potere in un atto parossistico di estrema violenza. Secondo il criminologo Francesco Bruno, bisognerebbe porre più attenzione ai segnali premonitori. “In Italia – spiega – mancano gli strumenti sociologici e giuridici per intervenire quando ci sono le avvisaglie. Non c’è alcun supporto per chi denuncia situazioni di maltrattamenti o violenze”. Da non sottovalutare sono ad esempio le forme di violenza verbale all’interno della famiglia, che vanno considerate come segnale di una possibile degenerazione violenta dei rapporti.
Un modo efficace per iniziare a contrastare questo fenomeno in crescita sarebbe quello di iniziare una seria politica di prevenzione del fenomeno, introducendo, specie nelle separazioni più conflittuali, percorsi di mediazione familiare e/o l’ausilio di psicoterapeuti della coppia specializzati nella prevenzione delle violenze familiari. Queste misure consentirebbero di interpretare correttamente i pericolosi segnali che spesso sono il preludio dei più efferati fatti di sangue.

Simona Esposito

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