George Harrison e la sua chitarra “gentile”

 

George Harrison in concerto coi Beatles allo Shea Stadium nel 1965

Gentile, ma non solo. Aggressiva, lunatica, decisa, stridente, coinvolgente. La chitarra è totalizzante, è strumento privilegiato attraverso cui esprimere sentimenti, pensieri, sensazioni, un mezzo di elezione per parlare e far parlare di sé; questa è la chitarra (“gentile” ma non solo) di George Harrison, timido ragazzo di periferia con ambiziosi sogni di rock’n roll, l’adolescente sempre schivo e modesto, dall’aria svagata di chi non crede alla fortuna di essere arrivato tanto lontano, eppure dotato di un’incommensurabile talento e di un animo delicato.

George Harrison ci ha regalato melodie indimenticabili con la sua chitarra che “piange gentilmente”, oppure gratta e stride, a seconda dell’umore; proprio per questo viene tutt’oggi considerato uno dei migliori chitarristi solisti della storia, e di sicuro il migliore chitarrista slide. Ci sono persone che hanno la rara facoltà di “parlare” anche agli oggetti inanimati. George sapeva parlare alla sua chitarra (la sua prima Gretsch di seconda mano, modello Duo Jet, da cui non si separò mai, e non solo) e la chitarra lo ricambiava, “cantando” per lui la sua melodiosa nenia: una capacità che nella produzione harrisoniana, forse più che in quella – pure più cospicua – degli altri tre Beatle, è forse più spiccatamente percepibile. La chitarra di George Harrison è controversa, multiforme, struggente: c’è un mondo dietro, un mondo interiore che trova nell’arte la via di fuga per accedere all’esterno, e in questa fuga si palesa e trasforma lo strumento della sua espressione, la musica, in un capolavoro di accordi tracciati coi colori dell’anima. Questo è – fu – George Harrison: un ragazzo, un uomo quasi inadeguato in questo mondo, proiettato verso la ricerca di una dimensione di vita spirituale, che trovò probabilmente nella conversione all’induismo, oltre che nella sua musica, attraverso la quale seppe cogliere la bellezza di un mondo (e della vita) che è effimero, volubile e passeggero. Nato a Liverpool da una famiglia di umili origini, George, terzo di quattro fratelli, fu sempre un bambino schivo e introverso, affascinato dalle chitarre, che disegnava sui quaderni scolastici. Compagno di scuola di Paul McCartney, fu da lui immediatamente notato per il suo talento: i due trascorsero lunghi pomeriggi a suonare insieme, ma quando John Lennon, all’epoca frontman dei Quarrymen, entrò in scena, l’allora quindicenne George, dalla personalità meno imponente rispetto ai più adulti compagni, fu relegato sullo sfondo, rassegnandosi a un ruolo passivo, da ascoltatore durante le prove della band che in futuro sarebbe stata soprannominata dei Fab Four, o da sostituto in assenza del loro chitarrista. Fu solo nel 1959, poco prima dell’esordio ufficiale dei Beatles, che Harrison fu ammesso a pieno titolo a far parte del gruppo, senza però mai riuscire a dare pieno sfogo alla sua vena artistica: considerato tuttora il “terzo” Beatle, rimase sempre secondo a John Lennon e Paul McCartney, un eterno fratello minore che si continua per la vita a trattare con sufficienza: è strano scoprire che, all’interno di tutta la discografia beatlesiana, sono solo ventidue i pezzi firmati da Harrison.

La carriera da solista, pur non garantendo lo stesso successo di pubblico sperimentato coi Fab Four, fu sicuramente un porto più accogliente, cui Harrison pervenne dopo anni di frustrazioni artistiche: non a caso, immediatamente dopo lo scioglimento dei Beatles, Harrison pubblicò un triplo disco All Things Must Pass, in cui raccolse tutte le canzoni fino ad allora composte e mai lanciate, probabilmente causa ostruzionismo della lobby monopolistica Lennon-McCartney, rispetto alla quale la figura di Harrison rimase spesso nell’ombra; anche a distanza di anni, Harrison rifiutò – tranne in rari casi, come alla morte di John Lennon – di tornare a collaborare con gli ex-Beatle, come un ragazzino che, uscito dal liceo, cresciuto finalmente, taglia tutti i contatti coi compagni che lo prendevano in giro, perché non riuscirebbe, con loro, a essere l’uomo che è diventato. Tuttavia, proprio il suo amore per la musica, il desiderio, e la continua ricerca della sperimentazione, costituirono elementi di fondamentale apporto alla crescita musicale di tutti i Beatle: come non ricordare il periodo indiano, di cui Harrison fu principale fautore, dopo essere rimasto affascinato dalla cultura induista che ben presto iniziò a studiare, convertendosi, e convertendo anche la sua musica, al suadente fascino esercitato dall’Oriente, e dal suo maestro, mentore e amico Ravi Shankar, da cui imparò a piegare le docili corde del sitar, strumento della musica indiana i cui suoni ferrosi spesso introdusse nelle sue composizioni.

Il viaggio in India lasciò un segno indelebile nell’animo sensibile del compositore e dell’uomo George Harrison: dopo il 1968 egli vi ritornò spesso, solo, alla ricerca di pace e di ispirazione. E fu probabilmente l’influsso della filosofia e della religione induista, che ebbe forte presa sulla sua personalità tanto eterea, ad allontanarlo dai palcoscenici, da quelle luci della ribalta verso cui tenne un contegno sempre ambivalente, combattuto tra le sue aspirazioni artistiche, che imponevano il prezzo della popolarità, e l’esigenza di preservare la sua vita privata; durante i periodi di inattività musicale, George Harrison fece molto poco parlare di sé, tenendo addirittura nascoste al clamore dei media le sue opere di bene dopo lo smacco del concerto per il Bangladesh (1971) i cui proventi, originariamente destinati alla beneficenza, furono tassati dal fisco con l’accusa di aver costituito fonte di lucro. L’episodio l’allontanò ancor più dai riflettori: rintanato nel privato di una vita divisa tra la musica, la droga e i triangoli amorosi con la moglie Pattie Boyd e l’amico del cuore Eric Clapton, gli anni ’70 furono per Harrison anni sballati, vissuti all’insegna della ricerca della pace interiore tra droga e meditazione, in cui ogni cosa, ogni esperienza, alla luce deformata degli stupefacenti, assunse i contorni di una musa ispiratrice, di un sacrificio offerto sull’altare della dea Musica: dalla moglie fedifraga cui dedicò Something, definita da Frank Sinatra “la più bella canzone d’amore del secolo”, all’amico fraterno ma traditore (un ossimoro evidentemente conciliabile) Eric Clapton, con cui continuò a lavorare anche all’interno della “setta” dei “fratelli Wilburys” – tra i cui nomi illustri si annoverano anche Bob DylanTom PettyJeff LynneRoy Orbison – al maestro e amico Ravi Shankar, che per primo lo spinse verso la “contaminazione” indiana.

Gli ultimi anni della sua vita furono divisi tranquillamente tra la musica, il nuovo hobby dei raduni automobilistici, l’amore per la seconda moglie Olivia e il figlio Dhani. George Harrison morì a soli cinquantotto anni, stroncato da un tumore alla gola prima, al cervello poi. Qualcuno potrà pensare che sia stata la droga a ucciderlo, qualcun altro penserà alle frustrazioni artistiche che non finirono dopo lo scioglimento dei Beatles, o alla eterna guerra interiore tra successo e privacy che mai smise di tormentarlo; ma forse, quello che avrebbe detto lui a proposito della sua morte, sarebbe suonato piuttosto come la calma, sobria constatazione di un ricongiungimento all’universale, di un ritorno al punto di partenza. L’animo gentile di George Harrison, quello che più che mai esplode (ma sempre pacatamente, con armonia, quasi con amara, e insieme dolce rassegnazione alla vita) nelle note delle sue canzoni, non era a suo agio in questo mondo; e prima di altri, ha “scelto” di migrare verso più adeguate mete.

Giuliana Gugliotti

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