Fausto Tentorio, morire per un sogno

Una recente fotografia del missionario

“I have a dream…” diceva Martin Luther King davanti al Lincoln Memorial Hospital al termine di una marcia nonviolenta per i diritti civili. Era il 1963, anni concitati. La lotta per la pace era appena iniziata. La strada da fare era ancora lunga – lo è tuttora – e disseminata di ostacoli. Martin Luther King sognava in grande, per i suoi ideali ha perso la vita. Oggi c’è ancora chi continua a percorrere quella strada.
Tutti gli esseri umani hanno un sogno, ma non tutti sono in grado di realizzarlo.
Ancora meno sono quelli disposti a morire in nome di un sogno.

Fausto Tentorio probabilmente era uno di questi. Se ieri gli avessero chiesto come avrebbe voluto morire, probabilmente avrebbe risposto proprio così: morire per ciò per cui si è lottato una vita intera. L’idea di sacrificare la propria vita in nome di un obiettivo superiore è un pensiero scarsamente consolante davanti alla prospettiva della morte: nessuno desidera morire, meno che mai per mano di un altro essere umano. Meno che mai in una mattina di Ottobre, in cui l’unico scopo è raggiungere la città vicina per portare ancora un po’ più in là un messaggio di pace.
Così è morto padre Fausto Tentorio, 59enne missionario italiano originario di Lecco, da più di trent’anni residente a Mindanao, Filippine, in una zona rurale vessata dall’analfabetismo e da una miseria cieca, di cui a fare le spese sono soprattutto i bambini. Sparato da due sicari, mentre stava entrando in macchina, subito dopo la messa mattutina, per raggiungere il presbiterio di Kidapawan.

Ci sono morti che destano nella stessa misura rabbia, indignazione e speranza. Certo padre Fausto non voleva morire; ma, se avesse potuto scegliere, forse avrebbe scelto davvero di morire così: sparato dai killer, in una mattina come tante, mentre cercava di realizzare il sogno di una vita nella piccola routine della quotidianità.
L’amore per le Filippine ha radici lontane: subito dopo i voti (1978) Fausto Tentorio decide di partire missionario per il Pime. Sono vocazioni imperscrutabili, rispondono a un’urgenza interiore, una voce dell’anima che non si può far tacere. La scelta della zona in cui operare non è casuale: Arakan, in una regione a nord delle Filippine lacerata dall’estremismo islamico, è soprattutto una città rurale in cui vige ancora un annoso sistema latifondista. La gente comune è poverissima, muore di fame e di consunzione. Quando padre Fausto è arrivato non c’erano scuole né ospedali, nessun tipo di assistenza per una popolazione abbandonata a se stessa, senza terra e senza radici, costretta a spostarsi per sopravvivere. In questi luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, l’unica speranza sono le missioni ecclesiastiche. La conversione dei fedeli c’entra poco; l’intento di fare proseliti passa in secondo piano davanti alla necessità di restituire innanzitutto una dignità umana a interi popoli che l’umanità sembrano averla smarrita, decapitata sotto i colpi di machete dello sfruttamento capitalistico – e latifondistico. I Manobo sono uno di questi popoli: un’etnia minoritaria, di circa 3mila persone, sparse in un territorio di più di 300mila ettari che ai grandi proprietari terrieri faceva – e fa ancora – gola. Padre Fausto lavorava quotidianamente per impedire a governi, politici e latifondisti di appropriarsi di queste terre antichissime e vitali per la sopravvivenza dei Manobo. Si dedicava soprattutto ai bambini, agli emarginati e ai poveri, mettendosi al loro pari, nell’animo e nell’abbigliamento, negli atteggiamenti e negli intenti, con l’unico scopo di condividere insieme la vita. Migliorare per migliorarsi, per poi scoprirsi più simili all’altro di quanto non ci si sentiva in partenza. Padre Fausto era orgoglioso della sua missione: restituire a un popolo un senso di identità e di appartenenza troppo a lungo deturpato, sentendosi parte integrante di una comunità che nulla chiede e nulla sa, e proprio per questo riesce a dare tutto ciò che possiede. Ad Arakan padre Fausto si sentiva a casa sua, nonostante già una volta (2003) avesse rischiato la vita in un attentato.
Fausto Tentorio era consapevole di essere in pericolo: scherzosamente coltivava una pianta di fiori da mettere sulla sua tomba. Probabilmente sapeva di stare cozzando con le esigenze commerciali delle grandi aziende interessate ai terreni. Ma la gratificazione che può dare il sorriso di un bambino a volte è una molla più forte di qualunque deterrente. Padre Fausto non avrebbe mai rinunciato alla sua missione. Non se ne sarebbe mai andato. E nemmeno da morto se ne andrà: sarà sepolto nella terra dei Manobo, cui sentiva ormai di appartenere.
È oltraggioso pensare che ci sia ancora gente costretta a morire pur di realizzare un sogno; ma se così deve essere, la morte di Fausto Tentorio può ancora insegnare a noi occidentali usurati e cinici che la vita bisogna meritarsela; che la vita va tutelata, e l’unico modo per farlo è riuscire a darle un piccolo senso, per il quale vale sempre la pena lottare.

Giuliana Gugliotti

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