Eppur non ci siamo scordati di Lucio

Lucio Battisti negli anni Settanta

Un “dilettante spaventoso”, un “pallone gonfiato” con “dei chiodi che gli grattano in gola”. Così molti dei critici dell’epoca definivano Lucio Battisti: una voce da 25 miilioni di dischi venduti, una voce inimitabile, che per alcuni è “una lagna, uno strazio”, ma che ha stravolto completamente i modi di fare musica all’italiana, traghettando una generazione intera dai sound melodici di un neoclassicismo patinato, attraverso il rock’n roll e le sperimentazioni degli anni ’70, fino alla musica tecno e dance dei primi anni ’80.

Artista eclettico, solennemente votato alla sperimentazione, personaggio schivo ma chiacchierato, Lucio Battisti è icona di un’epoca che fu profondamente innovativa, artefice – insieme al paroliere Giulio Rapetti, alias Mogol – di un rinnovamento di forme e significati che rigenerarono dal profondo la canzone italiana, scalzandola dalla stucchevole retorica dei buonismi “all’italiana” e immergendola nella complessa semplicità della vita quotidiana, di cui la musica diviene pretesto per raccontare pezzi di una realtà, interiore o esteriore, vissuta o immaginata.
Fu questa la grande svolta che Battisti e Mogol insieme riuscirono a imprimere alla canzone italiana: creare un’osmosi costante, e prima d’allora sconosciuta, tra l’arte e la dimensione del quotidiano, per cui l’una serve da continua ispirazione per l’altra. Un’osmosi che si realizza appieno nell’arco di un decennio magico, quegli anni ’70 che vedono letteralmente scoppiare una Battistimania, i suoi pezzi sempre in cima alle hit parade nostrane, dal 1971 al 1980, addirittura preferiti agli internazionali The Dark Side of the Moon (Pink Floyd) e Don’t Shoot Me, I’m Only the Piano Player (Elton John).
Un successo che per Lucio affonda le radici in un passato di totale dedizione alla dea musica, scoperta quasi per gioco durante gli anni adolescenziali, quelli dell’Istituto Tecnico Industriale Galileo Galilei in provincia di Rieti, dove si diplomò soltanto per placare le ire paterne, prima di dedicarsi  totalmente alla sua passione. Un passato iniziato da autodidatta, e proseguito, grazie all’indiscutibile talento, all’insegna di svariate collaborazioni con gruppi emergenti prima – i Mattatori a Napoli, poi i Satiri a Roma e infine i Campioni, per cui suonò come chitarrista, trasferendosi a Milano – e con artisti affermati poi, dai Dik Dik agli Equipe 84 per i quali compose diverse canzoni, prima di raggiungere il successo personale, grazie a quella che sarà una lunga, intensa collaborazione con la Ricordi. Collaborazione che gli permetterà di calcare da cantante i più rinomati palcoscenici nazionali: dal Festival di Sanremo (Gennaio 1969), dove i suoni soffusi del rhythm and blues di Un’avventura gli valgono la classificazione al nono posto; al Festivalbar (Aprile 1969), dove trionfa letteralmente con Acqua azzurra, acqua chiara, staccando i Camaleonti, secondi classificati, di quasi 50mila voti; trionfo doppiato l’anno successivo (1970) con Fiori rosa, fiori di pesco.

A seguire è un’ondata di successi: da Mi ritorni in mente a 7/40, da Emozioni a Pensieri e parole, che segnerà il passaggio alla Numero uno, casa discografica fondata in collaborazione con Mogol, da La Canzone del Sole a Eppur mi son scordato di te, è un tormentone dopo l’altro. L’Italia è letteralmente conquistata dalla sua voce inconfondibile e capace di toccare l’anima altrui mostrando la propria, quell’ anima (Latina!) che trapela dai suoi componimenti, sempre al confine tra esternazione e introspezione, autobiografici ma non troppo, in bilico su quella linea invisibile che separa la fantasia dalla verità, e che così spesso conferisce alla finzione quel carattere di sincerità che la rende disarmante.
Ma Lucio non è nato per la popolarità: il suo carattere introverso lo spingerà ben presto ad allontanarsi dai riflettori, in cerca di quella quiete che è indispensabile all’espressione artistica. Dopo l’uscita de Il mio canto libero (1972), Battisti cesserà di esibirsi sui palcoscenici italiani, stanco delle continue polemiche sulla sua riservatezza, talmente ardua da digerire per i giornalisti da spingerli a metterne in discussione il talento musicale. Un talento che però non si discute per i migliaia di fan che, oggi come allora, continuano a amare la sua musica, rintracciandovi quell’unico, indispensabile vettore di cui Lucio Battisti si sentiva un artefice come tanti: l’emozione.
E Lucio riusciva davvero a emozionare il suo pubblico: persino la sua ultima apparizione televisiva (Aprile’72), un impareggiabile duetto con Mina alla trasmissione Teatro 10, segnerà un capitolo fondamentale nella storia della musica italiana. La nascita di Luca Battisti (Marzo’73), figlio di Lucio e Grazia Letizia, sua unica compagna di vita, segnerà la rottura definitiva con la stampa: l’irruzione violenta di fotografi e giornalisti nella clinica costringerà la famiglia Battisti a barricarsi letteralmente nella loro stanza per diversi giorni. La risposta dei giornali sarà feroce: Battisti verrà descritto come un uomo brusco, scontroso e avaro. Ma la sua unica avidità è quella della propria privacy, che tanto irrita le riviste di gossip.
Un rapporto, quello tra la stampa e Lucio Battisti, che era sempre stato caratterizzato dal conflitto: la sete di pettegolezzi rispetto alla sua vita privata da parte della stampa resterà sempre incomprensibile per l’uomo Battisti, desideroso di affermarsi e farsi apprezzare esclusivamente per il proprio talento.
Un desiderio che è un bisogno interiore di comunicare, che emerge dai suoi componimenti, e che lo spingerà per tutta la sua carriera a ricercare sempre nuovi stimoli – in ambito musicale e non solo – e nuovi modi di raccontare e raccontarsi attraverso la musica. Un’esigenza, quella di superare costantemente i propri limiti, che lo porterà anche alla rottura con Mogol, profilatasi immediatamente dopo aver toccato il picco del successo con Anima Latina (1974), disco sperimentale in cui i canoni classici della musica da ascolto vengono scomposti e sezionati (la voce di Battisti è molto spesso coperta dagli altri suoni, a tratti quasi impercettibile, per creare un flusso costante tra testo e melodia) in favore di un più attivo coinvolgimento dell’ascoltatore.
Alla rottura del sodalizio Battisti-Mogol seguiranno per Lucio intensi anni di sperimentazione, su palcoscenici esteri e con mescolanze musicali all’insegna dell’esplorazione di generi emergenti, rintracciabili nelle sonorità elettroniche di E già o nella fusione con rap e techno di Hegel, prodotto in collaborazione con Pasquale Panella. La produzione di Battisti subisce un cambiamento radicale, si raffina e si complica, sia da un punto di vista musicale che per quanto riguarda i testi, che si popolano di doppi sensi di non immediata comprensione. Eppure, nonostante la mancata pubblicizzazione, Lucio Battisti continua a vendere i suoi dischi, pur non riscuotendo, complici anche le critiche della stampa, lo stesso successo su largo spettro. Ma a Lucio poco importa. Non sarebbe mai tornato indietro, perché, come egli stesso dichiarò, un artista non può camminare dietro il suo pubblico, un artista deve camminare davanti”.
E lui davanti ci si è spinto davvero, senza paura. Tanto che la sua eredità non è andata persa, nemmeno davanti alla sua prematura morte (1998), che, anzi, non ha fatto altro che incrementarne la leggenda: quella di un uomo in fondo timido, fedele ai suoi valori, ma capace di lasciare un segno, di emozionare attraverso le sue Emozioni.

Giuliana Gugliotti 

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