Crisi libica: l’ennesima guerra spettacolo

Riflettori puntati sulla Libia: il dio petrolio non è il solo movente del conflitto. Ma nel mondo, di guerra non si è mai smesso di morire

Bertold Brecht, nel lontano 1939, anno in cui Hitler invadeva la Polonia, scrisse: “La guerra va incontro a tutte le esigenze, anche a quelle pacifiche”. Oltre settant’anni dopo, questa affermazione non ha perso di fascino né di verità. La guerra serve davvero per ogni esigenza, è panacea di tutti i mali, basta usarla con avvedutezza e parsimonia: una spruzzatina di  spezie umanitarie qui, qualche goccia di brodo pacifista là; e il pranzo è servito. A sedersi a tavola sono sempre gli stessi grandi Signori, quelli che, quando la torta è grossa e appetitosa, non esitano a scendere in campo per accaparrarsene almeno una fetta, ma sempre sbandierando alta e ben visibile la fiaccola della tutela dei diritti umani, alla luce della quale ogni guerra sembra avere una degna giustificazione.

E quando il gioco si fa duro, anche i media cominciano a giocare, puntando i riflettori sui fruttuosi palcoscenici della guerra: è stato così in Afghanistan e Iraq, così è in Libia. Ma non tutte le guerre sono uguali. Esistono, proprio come in ogni sport che si rispetti, guerre di serie A e guerre di serie B; tutto dipende dagli investimenti e dalle risorse. Guerre di serie A sono quelle in cui sono in ballo succosi interessi commerciali; guerre di serie B sono quelle in cui da guadagnare non c’è niente, anzi, c’è tutto da perdere. Ciad (2mila morti dal 2005), Nigeria (10mila morti dal 1953), Sudan (oltre 2mila morti dal 2009), sono solo alcuni dei nomi “insanguinati”, tanto lontani da risultare quasi sconosciuti; e poi ancora la guerra separatista in Kurdistan (oltre 40.00 vittime dal 1978), la persecuzione delle minoranze nel Laos (3mila morti dal 1975) e in Egitto (1.000 morti dal 1970); l’insurrezione nelle Filippine e il conflitto di Papua (dal 1969 rispettivamente 120mila e 100mila vittime); le guerriglie decennali in Colombia (200mila morti dal 1964), e Birmania (70mila morti dal 1948), sono tutti esempi di guerre – per la maggior parte civili – su cui non si hanno informazioni certe. Di tutti questi spargimenti di sangue, alle nostre orecchie non arriva che una eco indistinta. La ragione è presto detta: questi conflitti non interessano a nessuno. Nessuno tra gli Stati Occidentali che si professano tutori della democrazia ritiene necessario un proprio intervento pacificatore in queste regioni. Perché? Perché sono paesi che all’Occidente non hanno nulla da offrire, popolazioni talmente povere da non fare nemmeno notizia.

Per entrare in guerra, il gioco deve valere la candela. E il petrolio libico val bene un’intera scorta di ceri. La Francia, con la sua neoalleata Inghilterra, e gli onnipresenti Stati Uniti, non potevano lasciarsi sfuggire l’occasione di metter piede sul suolo, o meglio, di metter mano nel ricchissimo sottosuolo libico, seguite a ruota dalla modesta Italietta, che a rifiutare l’invito avrebbe soltanto finito di infangare definitivamente la memoria già alquanto vergognosa del proprio inglorioso passato coloniale. E se fino a poco fa il nostro Premier baciava la mano al colonnello Gheddafi, chiedendo scusa per la colonizzazione italiana agli amici libici con un trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione” (che, tra le altre clausole, offriva all’italiana Eni pieni diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici, un affare da 150 miliardi di euro), oggi l’Italia di Berlusconi non ha saputo resistere al richiamo degli antichi Alleati – e della Nato – che le impongono una partecipazione in prima linea nella battaglia contro il rais oppressore. Soprattutto perché lasciare andare avanti la Francia avrebbe significato perdere totalmente i diritti tanto faticosamente acquisiti sul petrolio libico, a cui la Total francese e la BNP inglese fanno una corte spietata: non è un mistero infatti che già lo scorso Ottobre l’Eliseo, nella persona del ministro dell’industria Christian Estrosi, avesse tentato di sedurre Gheddafi, offrendo alla Libia la propria tecnologia nucleare in cambio dell’oro nero (e probabilmente dell’uranio, forse presente nei giacimenti del Sahara), e ricevendo un cocente due di picche. E ora che l’occasione di appropriarsi dei ricchi pozzi libici si è ripresentata nella forma (ben più congeniale) della battaglia per i diritti civili, la Signora d’Oltralpe non ha esitato a scagliarsi contro quello stesso dittatore con cui pochi mesi prima aveva tentato di trattare.

La dura condanna francese dei “crimini contro l’umanità” commessi da Gheddafi e la conseguente presa di posizione battagliera ha difatti sorpreso quanti ricordavano una Francia pacifista in occasione di altri conflitti che hanno visto gli USA schierati in primo piano: e c’è già chi suppone che gli interessi francesi in Libia vadano ben oltre quelli legati al petrolio. La tentazione di imporre – grazie anche all’accordo stipulato con l’Inghilterra, con cui le due potenze si impegnano a dividere le spese per gli armamenti e condividere i “segreti” legati alla ricerca sul nucleare – una nuova egemonia (militare, energetica, commerciale) di colonialistiche reminiscenze sul Mediterraneo deve essere stata fortissima per la Francia di Sarkozy, se non addirittura aver costituito lo stesso “propellente” degli aerei militari che in questo momento sorvolano i cieli libici; e, a proposito di aerei, la guerra di Libia sarà senza dubbio un’ottima “vetrina” per i modernissimi caccia Rafale, tecnologia tutta francese, che Sarkozy sta da tempo cercando di vendere a un titubante Brasile. A quanto pare la posta in gioco francese sulla tavola libica è ben più alta e significativa di quanto si creda. E non è un caso infatti che Germania e Russia abbiano rifiutato di schierarsi in questo conflitto, e che gli stessi Stati Uniti vi svolgano un ruolo marginale: la sorte del colonnello Gheddafi è tutta nelle mani di una Francia con rinnovate ambizioni napoleoniche, e corre sul filo del neonato asse Sarkozy-Cameron, mentre l’Italia si affanna (al solito) a star dietro alle grandi, costretta a ritrattar anche la recente amicizia promessa alla Libia. Il ministro La Russa ha il suo bel dire che il trattato italo-libico si è infranto e che l’Europa non deve abbandonare l’Italia; per ora, il futuro della Libia poggia tutto sulle decisioni francesi. La sorte italiana dipenderà invece da quanto Gheddafi sarà in grado di mantenere le sue promesse di ritorsione nei confronti dei “traditori” italiani. Certo, se la sua parola vale quanto quella del nostro Governo, gli italiani possono davvero dormire sonni tranquilli.

Giuliana Gugliotti

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