Beirut – The Rip Tide

La scarna copertina (al contrario del contenuto) di The Rip Tide

I Beirut, uno dei gruppi più innovativi ed originali dell’ultimo biennio, tornano con un disco breve e omogeneo composto da nove pezzi intrisi di fascino romantico e semplicità.

Per chi non li conoscesse, urge l’ascolto di capolavori come Gulag Orkestar, il loro primo lavoro, o The Flying Cup, secondo disco registrato in parte negli studi canadesi degli Arcade Fire.
Il gruppo originario di Santa Fe stavolta miscela sapientemente i cari vecchi suoni, intrisi di trombe e fiati con basi elettroniche gradevoli e mai al di sopra del pezzo.

A Candle’s Fire è un esempio del primo caso, dove la voce di Condon è accompagnata dal tipico tappeto di trombe, mentre Santa Fe, il secondo pezzo (e omaggio alle origini di Condon, appunto) è proprio un giusto mix di elettronica e cori mischiati a fiati, probabilmente uno dei pezzi più riusciti dell’intero lavoro.

Ancora con le orecchie affascinate dalle prime due gemme e ci catapultiamo su East Harlem, un pezzo ritmato e sornione, con un piano che detta accordi allegri e spensierati. Goshen prende spunto sempre da una base di piano, ma stavolta più intensa e cupa, dove la voce di Condon entra per “rassicurare” tutti: i Beirut sono e restano un gruppo easy listening, dove non c’è spazio a tristezza, ma al massimo un pò di dolce malinconia.

Payne’s Bay apre con una sezione di archi e fisarmoniche, un brano che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di Little Miss Sunshine, un pezzo alla DevotchKa e alla Sufjan Stevens.
Sapori messicani uniti a ritmi irlandesi, con un contorno di parata militare di qualche domenica pomeriggio di uno sperduto paesello dell’America meno conosciuta, fantastico.

La Title Track è un crescendo di piano ed archi pizzicati degno dei migliori Arcade Fire. The Vagabond apre con un piano quasi soul, dove i soliti fiati ben si intrecciano, creando un miscuglio di suoni mediterranei e nord-europei davvero originale, che pochi gruppi possono permettersi. The Peacock è un tripudio di organi a basse frequenze, che si trasforma in un gospel struggente. Il disco si chiude con i suoni di ukulele e glockenspiel di Port Of Call, una ballad allegra e spensierata che sembra essere cantata da Morrisey più che da Condon (in effetti lo stile è molto simile, supponiamo che l’autore di Santa Fe ne sia stato grande fan), una chiusura non banale e che lascia il dolce in bocca, una volta tanto.

L’originalità di questo gruppo è come al solito la maestria di miscelare Balcani ad Appennini, polverosi cortili messicani a sperdute valli irlandesi e scozzesi. Ancora una volta Condon ci lascia sbalorditi. Non vi resta  che scoprire i Beirut ed il loro fantastico mondo!

Marco Della Gatta

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