Anders Breivik, ritratto di un assassino

Il saluto neonazista di Breivik in tribunale

Pugno alzato in stile neonazista, occhi di ghiaccio e sguardo impenetrabile. Anders Breivik trafigge i giurati con aria sprezzante e fiera, impassibile si offre ai fotografi nel suo completo scuro con cravatta chiara, nessun’ombra di rimorso sul volto che dopo quel 22 Luglio per i norvegesi è diventato la maschera del Diavolo. Il momento della verità è arrivato, ma lui, Anders Breivik, membro della Resistenza norvegese dei Cavalieri Templari, antilaburista convinto e fiero oppositore del multiculturalismo, non ha paura.

I suoi ideali, le folli convinzioni che l’accompagnano da anni sono lì a proteggerlo come demoni alati. Dandogli la certezza di avere agito per il meglio, in nome del bene e non del male, quando ha piazzato una bomba nella sede del Governo e quando ha sparato all’impazzata tra la folla della gioventù laburista.

Un gesto che rifarebbe ancora e ancora, perché non si è trattato né di un atto di terrorismo né di un crimine contro l’umanità, come la malafede di alcuni cercava di insinuare. No. Lui, Breivik, ha agito solo per legittima difesa. La sua, e quella dei norvegesi e della Norvegia minacciata dall’avanzata laburista, un Nazismo in versione comunista dalla dubbia apertura a sconvenienti commistioni multirazziali, che metterebbe in serio pericolo l’identità nazionale e l’integrità morale del Paese.

Anders Breivik non teme il processo che, iniziato ieri,  nel giro di dieci settimane potrebbe condannarlo a 21 anni di carcere. Perché la sua patria, schiava di populismi finto-progressisti e di mefitiche contaminazioni politico-globalizzanti, la pacifica e prospera terra di Odino, è già una galera. A cui Breivik ha tentato invano di far saltare le sbarre. Erano già due anni che preparava l’attentato, annotando tutto in una sorta di manifesto politico delirante, 1500 pagine intrise di odio, discriminazione e razzismo che oggi assumono contorni inquietanti. Come inquietanti sono i suoi racconti di un’infanzia trascorsa tra Londra e Oslo sotto l’influenza nefasta della disgregazione familiari.

Testimonianze assolutamente prive di emotività, che descrivono con un rigore ai limiti del fanatismo gli influssi di un clima familiare melenso e matriarcale e fanno emergere lo spettro del fallimentare rapporto con un padre assente. I genitori divorziano quando Anders ha solo dodici anni. Suo padre si trasferisce da Londra a Parigi e tenta di ottenere l’affidamento ma alla fine Anders tornerà a Oslo con una madre chioccia e sempre più soffocante, che dopo il rifiuto paterno – Breivik padre non perdonerà mai al figlio l’adolescenziale passione per i graffiti e commenterà con freddezza la notizia dell’arresto del figlio, casualmente appresa dai giornali: “avrei preferito saperlo suicida” – prende definitivamente il sopravvento. La deriva identitaria dovuta alla prematura rottura con il padre lo spinge a cercare un modello nell’ostentazione anche violenta della forza maschile. Ormai adulto Anders si avvicina ad alcuni gruppi di estrema destra, a cui però non si unisce. Resterà sempre un solitario, Anders Breivik, uno di quelli che preferisce agire da solo.

Il profilo che emerge è quello di un megalomane a tratti delirante, paranoico – non a caso, Breivik scrisse nei suoi diari di essere cresciuto in un’atmosfera troppo effeminata, e le voci da lui prontamente smentite di suoi rapporti omosessuali delineano perfettamente il quadro di una personalità paranoica, alla base della quale ci sarebbe una omosessualità conflittuale, più o meno latente ma vissuta come persecutoria – oltre che narcisista. Il ritratto perfetto dell’omicida seriale, un invasato che uccide indiscriminatamente in nome di una legge e di una giustizia supreme.

Il processo dovrà prima di tutto stabilire se Breivik è malato di mente oppure capace di intendere e di volere. Ma il confine tra una lucida follia e la freddezza calcolatrice di un uomo “senz’anima”, come l’ha definito una delle sue vittime, è difficile da identicare. Un amico d’infanzia, il giornalista Peter Svaar, lo ricorda come un bambino timido, ossessionato dall’abbigliamento hip hop – Breivik era un hiphop’ers molto conosciuto a Oslo – e dalla cura maniacale del corpo. Un collega lo descrive come un uomo dall’ego smisurato, distaccato e orientato all’obiettivo, mentre Breivik stesso si dipinge come “ottimista, pragmatico, ambizioso, creativo e lavoratore indefesso”. Certo caparbietà e costanza non mancano a Breivik.

Mentre Peter Svaar valuta l’ipotesi che Breivik si stia prendendo gioco dell’intera Nazione, il tratto più inquietante della sua personalità resta tuttora la totale incapacità di sperare e l’assenza assoluta di pentimento. Comunque andrà il processo, Breivik è un uomo finito. Non ha più niente da perdere.

Giuliana Gugliotti

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