Il cinema italiano riscopre l’impegno civile, ma al botteghino è flop

Un’immagine tratta da Diaz, il film di Daniele Vicari sul G8 di Genova uscito il 13 aprile

Rileggere la cronaca, addentrarsi nelle pagine più oscure della storia di questo paese, e con la potenza delle immagini spingere alla riflessione, far discutere nel bene o nel male che sia. Dalle stragi di Portella della Ginestra a Piazza Fontana, Brescia, Ustica, Bologna o i “casi” Mattei, Moro, Ambrosoli e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Le questioni più scottanti di una storia recente ancora piena di ombre, hanno trovato ampio spazio nella produzione d’autore e documentaristica. Ma questo accadeva soprattutto in un passato lontano. Della gloriosa tradizione del cinema d’impegno civile, del quale Francesco Rosi ed Elio Petri sono i massimi rappresentanti, si sono perse quasi del tutto le tracce. Oggi vige la logica dei soldi facili, e il marasma di commedie che affollano i nostri schermi ne è la conseguenza più evidente. Ma in un paese narcotizzato dalle risate, ci sono anche autori che tentano faticosamente di risvegliare con le loro opere le coscienze intorpidite degli italiani. In questi primi mesi del 2012 abbiamo assistito ad un revival del ‘cinema sociale’; un cinema che raccontando temi delicati o fatti di cronaca contemporanei, solleva dubbi e domande nell’opinione pubblica, portandone all’attenzione elementi che altrimenti cadrebbero nell’oblio. Nel giro di poche settimane, sono usciti film come ACAB, Romanzo di una strage, Cesare non deve morire, La-Bas, e Diaz – don’t clean up this blood, testimoni di un cambio di rotta e di un interesse, forse mai sopito, da parte di registi e produttori verso un cinema più vicino alla realtà, che ha il coraggio di raccontare senza reticenze cosa davvero accade e cosa è accaduto in questo paese. Perché ci sono storie che hanno l’urgenza di essere raccontate, e film che vanno fatti, nonostante gli ostacoli produttivi e distributivi che incontrano sulla strada verso l’uscita in sala.

Ne è un esempio Diaz di Daniele Vicari, uscito il 13 aprile tra polemiche e divisioni ideologiche da stadio che ne hanno caratterizzato anche l’intero iter produttivo. Nato nella diffidenza più totale, il film di Vicari, documenta l’impunita “macelleria messicana” che avvenne la notte del 21 luglio alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto. Il G8 di Genova, le devastazioni dei black bloc e la morte di Carlo Giuliani sono stati immortalati da migliaia di filmati professionali e non, ma nessuno si è mai spinto oltre i cancelli di quella scuola e quella caserma in cui avvenne ciò che Amnesty International ha descritto come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Le immagini di quell’efferata e insensata violenza ora ci sono, basate sulle oltre diecimila pagine degli atti processuali e tradotte in due ore di cruda denuncia, capace nelle sue scene clou di mettere a dura prova anche lo stomaco dello spettatore più forte. Due settimane prima di Diaz era uscito Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, una rilettura romanzata dell’attentato di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 che ha avuto il merito di riaprire uno squarcio di verità su un evento assai controverso della nostra storia, che ha inaugurato un periodo altrettanto buio come gli anni di piombo.

La grande rivincita del cinema impegnato emerge forte dall’elenco delle candidature ai David di Donatello (16 per Giordana) ma anche dall’Orso d’oro vinto alla 62° Berlinale da Cesare non deve morire dei fratelli Taviani; un premio che mancava all’Italia da 22 anni, attribuito ad un’opera originale che oscilla tra teatro, documentario e cinema, che ridà voce e dignità ai reclusi di un carcere. Film del genere andrebbero visti a prescindere dalla loro qualità e della loro maggiore o minore aderenza al reale. Ma è evidente, leggendo i numeri, che sono incapaci di parlare al grande pubblico. Pagine di giornali, ospitate in tv, rumore sui social network, non bastano a decretarne il successo. Nonostante il clamore mediatico, il cinema impegnato al box office stenta a decollare. E non basta nemmeno appellarsi al “dovere civile”, per spingere in sala il pubblico, soprattutto quello più giovane. Sentiamo ripetere che il cinema italiano è morto, che si fanno solo cinepanettoni, che non riusciamo ad essere competitivi all’estero e che al box office trionfano solo le commedie di Zalone & co. perché non ci cono alternative all’altezza e perché agli italiani con la crisi piace ridere. Ma quando poi queste alternative vengono fuori, i risultati in sala sono mediocri. Perché? Non si può dare la colpa solo al contesto storico e alle preoccupazioni che ci affliggono, né voglio credere che agli italiani piaccia solo divertirsi. Al cinema non si può solo ridere, a volte si deve anche pensare.

 

Enrica Raia

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