Don Peppino Diana e la resurrezione possibile

Don Peppe Diana, prete ucciso dalla Camorra il 19 Marzo 1994. Ieri prima festa regionale in suo onore.

Nessuno ci voleva andare, quella mattina del 19 Marzo 1994, ad ammazzare don Peppe Diana. Nessuno, nemmeno i killer professionisti, si voleva sporcare le mani col sangue di un prete. Perché “il prete è un uomo strano, se muore non c’è nessuno che lo sostituisce”. Così si leggeva su un cartello appeso alla porta della chiesa di San Nicola di Bari la mattina in cui uccisero don Peppino. Alla fine un sicario l’avevano trovato. Da quella mattina sono passati diciotto anni. Diciotto anni di impegno a divulgare sempre lo stesso messaggio, perché l’omicidio di don Peppino ha davvero risvegliato qualcosa. Dal consueto corteo di Libera – quest’anno svoltosi a Genova – in memoria di tutte le vittime innocenti delle mafie, alla proclamazione di una festa regionale laica voluta dal sindaco di Napoli De Magistris in ricordo di don Peppe Diana, l’invito alla cittadinanza è quello a non tacere, a non avallare, a non tollerare. Perché esiste un altro modo di vivere. Nella legalità. Basta trasformare l’omertà in coraggio, scavalcare la paura e provare a opporsi insieme al Sistema. Questo Don Peppino lo diceva chiaro ai suoi fedeli. Se avesse potuto l’avrebbe gridato a squarciagola. ”Per amore del mio popolo non tacerò”. Don Peppino non avrebbe mai taciuto se non l’avessero zittito.

Giuseppe Diana era nato a Casale, ma se n’era andato per studiare teologia a Napoli e a Roma. Aveva fatto carriera negli scout, ne avrebbe fatta anche nella Ecclesia se avesse voluto. Ma a un certo punto decise di tornare. A 31 anni prese l’incarico come sacerdote nella parrocchia di San Nicola a Casal di Principe. Era rientrato a casa, don Peppe, per cercare di capire come funzionavano – e come potevano essere scardinate – le logiche del potere camorristico. Sapeva di avere dalla sua parte un p0tere altrettanto forte, altrettanto suggestivo. La tonaca era un’opportunità, non certo un vincolo. Una sorta di passepartout per entrare nelle case della gente, per parlare ai giovani sedotti dal Sistema, alle madri preoccupate per la sorte dei figli, ai commercianti vessati dal pizzo ma incapaci di denunciarlo. Lo scopo era prevenire, non consolare; far capire alla gente che un’altra strada esiste, e che si può imboccare insieme.

Erano anni concitati, i Novanta, per i Casalesi. I fedelissimi a Sandokan latitante contro gli affiliati al clan Di Falco, le lotte intestine per la gestione dei rifiuti – si apriva allora la piaga senza fine dell’emergenza – e la riorganizzazione delle piazze della droga. Don Diana era un problema di troppo, sale sulle ferite, prurigine fastidiosa sulla pelle già segnata da tagli più profondi. Che bisognava eliminare. Don Peppino sapeva di essere inviso alla Camorra, ma non aveva paura di morire. Alla madre preoccupata rispondeva che se avevano ucciso Gesù Cristo potevano ammazzare anche lui, che seguiva i suoi insegnamenti. Ma non ci credeva che l’avrebbero fatto davvero. Lui che a Casale ci era nato e cresciuto, lui che con Giuseppina Nappa, moglie di Sandokan, era andato a scuola insieme, e le aveva battezzato il figlio. Lui, che ora era un sacerdote. I camorristi sono sempre stati devoti a modo loro. Don Peppino credeva che la tonaca l’avrebbe protetto. Ma quella mattina del 19 Marzo, giorno del suo onomastico, la tonaca non la indossava. Non se l’era ancora infilata, per celebrare messa prima di andare a fare lezione all’ITIS di Aversa, dove avrebbe offerto caffè e polacche ai suoi colleghi per festeggiare il Santo di cui portava il nome. “Sono io don Peppino”, rispose fiducioso, pronunciando la sua condanna a morte, alla domanda del killer confuso dai suoi abiti civili. Prima di sparargli – quattro colpi a bruciapelo, tutti mandati a segno – il killer non l’aveva mai visto. Morì sul colpo, don Peppe Diana, senza rendersene conto, senza avere tempo per capire, per guardare in faccia l’aggressore o per recitare l’ultima preghiera. Morì, a 36 anni, senza sapere come, pur sapendo bene perché.

La sua morte inattesa fece scalpore, subito si pensò a una sua connivenza con la criminalità. Perché nessuno muore in terra di Camorra senza aver fatto parte dei giochi. Quelli che lo conoscevano invece sapevano. Il giorno dell’omicidio si riversarono in strada, spontaneamente. Gente comune, politici e rappresentanti delle istituzioni locali. Andarono alla parrocchia che era stata di don Peppino, a vegliarne le spoglie e a testimoniare col loro dolore dignitoso la sua innocenza. Anche la camorra finì col ripudiare il delitto, non riuscendo a farlo passare per un regolamento di conti con uno che aveva le mani in pasta. Iniziò una lotta tra clan per affermare la propria estraneità all’omicidio di don Peppe Diana, per poter dire: “Non siamo stati noi, ma quegli altri”. Ma fa ben poca differenza. A uccidere don Peppe Diana non fu l’una o l’altra fazione, ma l’intero Sistema camorra. Un Sistema che poggia sull’omertà di chi avalla l’illecito coi silenzi e i volti girati dall’altra parte. Contro quel sistema Don Peppino aveva lottato. Lui ci credeva, nella possibilità di una resurrezione delle sue terre. Con il suo messaggio ha gettato un seme di speranza. Forse ci è voluta la sua morte per indignare gli animi, per far capire alla gente che Camorra non è famiglia, non è tutela, non è legge assoluta. Ma oggi Casal di Principe e tutte le terre dell’agro-aversano non sono più terre di nessuno, abbandonate allo sfruttamento e all’incuria. Non sono più terre di Camorra, ma le terre di Don Peppino Diana, che ogni giorno provano a sopravvivere in una legalità che seppure lontana, oggi sembra un po’ meno impossibile.

Giuliana Gugliotti

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