VITTORINI E IL MITO AMERICANO

VITTORINI E IL MITO AMERICANO

Tra gli anni  ’30  e  ’40  si  sviluppa  da  parte  di  alcuni  tra  i  maggiori  giovani  scrittori  italiani  un forte  interessamento  verso  la  produzione  letteraria  nordamericana,  sia  quella  appartenente  al secolo  precedente  sia  quella  contemporanea

Utopoa, sogno, futuro.

Elio  Vittorini  e  Cesare  Pavese si votarono, appassionati a questa produzione che diventò  presto  una  vera  e  propria  ragione  di  vita,  a  tal  punto  da  indurli  a  dedicarsi  ad  un enorme  lavoro  di  traduzione  di  romanzi  e  poesie. Per   quanto  riguarda   Vittorini,   il   culmine   del   suo   tributo   alla   letteratura   d’oltreoceano   è rappresentato  dall’elaborazione  per  conto  dell’editore  Bompiani  dell’antologia  Americana  (1941), di  cui  conosciamo  bene  la  travagliata  storia  che  le  permise  di  ottenere  solamente  alla  fine  della guerra  il  giusto  riconoscimento. Quale  significato  poteva  assumere  il  “mito  americano”  espresso  dai  vari  Whitman,  Melville, Hemingway,  Faulkner,  Steinbeck,  Saroyan,  Lawrence,  ecc.  per  un  intellettuale  obbligato  a  vivere, pensare  e  scrivere  nell’Italia  fascista? L’America  era  vista  come  la  “giovane”  nazione  emblema  di  libertà  politica  e  di  espressione individuale,  grande  fucina  di  vitalità  e   furore  di  conquista,  vero  modello  da  seguire  in  netta contrapposizione  con  tutto  ciò  che  professava  la  cultura  fascista  e,  quindi,  osteggiato  in  tutte  le maniere  dal  regime.  Non  solo,  soprattutto  per  un  siciliano  come  Vittorini  –  figlio  di  una  terra  aspra e  ostile  che  ha  prodotto  intere  generazioni  di  emigranti  –  si  trattava  anche  di  una  sorta  di  viaggio  di ritorno  di  una  cultura  nata  nel  vecchio  continente,  andata  oltreoceano  a  rigenerarsi  e  ritornata arricchita  di  valori  e  infinite  possibilità. In   Conversazione  in  Sicilia,   considerata  l’opera  più  significativa  di  Vittorini  –  non  un  racconto autobiografico,  come  specificato  a  più  riprese  dall’autore,  però  sicuramente  “pregnato”  di  tante sue  esperienze  di  vita  –,  troviamo  molti  elementi  che  indicano  l’influenza  americana  (la  stesura  del romanzo,  scritto  di  strappo  dalla  fine  del  ’37  al  ’39,  coincide  con  il  periodo  in  cui  Vittorini  si  dedicò particolarmente  alla  lettura  delle  opere  di  Steinbeck  e  Saroyan)  che  lo  hanno  indotto  in  qualche maniera  a  plasmare  il  suo  stile  a  quello  di  grandi  autori  d’oltreoceano. Conversazione  in  Sicilia  è  il  racconto  del  viaggio  di  ritorno  di    un  giovane  siciliano,  Silvestro,  verso  la terra  natìa  per  rincontrare  dopo  quindici  anni  l’anziana  madre  Concezione;  il  viaggio  di  ritorno, schema  narrativo  che  troviamo  presente  in  buona  parte  della  produzione  letteraria  europea dell’epoca  e  che  si  rifà  al  mito  dell’Odissea,  è  un  tema  ricorrente  anche  nella  letteratura  americana del  periodo. Altro  elemento  stilistico  presente  nel  romanzo,  riconducibile  a  letture  di  grandi  autori  come Hemingway,  Caldwell  e  Steinbeck,  è  la  modalità  di  innescare  i  dialoghi  (io  dissi:,  egli  disse:,  io chiesi,  lui  rispose:,  ecc…)  che  rimanda  ad  un  sistema  linguistico  mutuato  dai  romanzi  di  narrativa americana.  Il  desiderio  di  America,  visto  come  mito  fantastico,  si  esplicita  in  maniera  netta  nel lungo  dialogo  che  si  svolge  –  nel  terzo  e  quarto  capitolo  della  parte  prima  –  tra  Silvestro  e  i  suoi compagni  di  viaggio  sul  traghetto  verso  Messina,  quando  a  domanda  egli  risponde: “Soggiunse:  –  Siete  americano,  voi?” “Sì,  –  dissi  io,  vedendo  questo.  –  Americano  sono.  Da  quindici  anni.” Silvestro  –  e  quindi  Vittorini  dietro  di  lui  –,  è  colpito  dal  dolore  e  dall’angoscia  che  trasmettono  in particolare  il  piccolo  siciliano  disperato  e  la  sua  moglie  bambina,  costretti  dall’estrema  povertà  a mangiare  solo  ed  unicamente  arance;  con  la  sua  risposta  inventata  –  oltre  ad  esternare  il  forte desiderio  di  America  insito  in  lui  –  lancia  un  messaggio  di  possibilità  di  riscatto,  di  speranza  per tutti,  è  il  “regalo”  che  dona  loro  per  simpatia,  per  pietà. La  “visione”  di  Vittorini  dell’America  non  si  limitava  solamente  alla  letteratura,  egli  era  anche appassionato  di  cinema  e  fotografia  d’oltreoceano,  da  lui  considerate  comunque  forme  d’arte “minori”  rispetto,  per  esempio,  anche  alla  pittura;  Conversazione  in  Sicilia  è  un  esercizio  continuo di  applicazione  dell’espressività  tipica  del  cinema  e  della  fotografia,  e  cioè  la  rappresentazione descrittiva  di  luoghi  e  situazioni;  è  con  lo  stile  e  il  linguaggio  utilizzato  che  l’autore  arricchisce, aggiungendo  soggettività  all’oggettività  del  contesto  rappresentato. In  alcuni  passaggi  del  romanzo  invece  il  linguaggio  utilizzato  è  molto  implicito,  come  per  esempio nell’ultimo  capitolo  dove  il  dialogo  che  si  articola  tra  tutti  i  personaggi  principali  del  libro  (meno  la madre  Concezione)  radunati  a  commentare  la  nudità  della  statua  femminile  di  bronzo  è caratterizzato  dagli  “ehm”  di  Silvestro  –  esempio  del  modello  di  “implicitezza”  mutuato  da  Vittorini dalla  letteratura  americana  (Hawthorne,  Melville,  Hemingway)  –,  questo  termine  così  ermetico, vago,  al  quale  possiamo  attribuire  il  significato  di  tacita  e  velata  critica  all’ipocrisia  della  retorica celebrativa  fascista. In  definitiva,  è  innegabile  che  la  grande  passione  di  Vittorini  per  la  cultura  americana  ne  abbia  in qualche  maniera  influenzato  lo  stile  letterario;  la  peculiarità  più  importante  che  egli  riconosceva  in particolar  modo  alla  letteratura  d’oltreoceano  era  quella  di  aver  avuto  il  coraggio  di  andare  a scavare  a  fondo  dei  problemi  della  loro  società,  fornendo  poi  delle  risposte  oneste,  coraggiose, concrete,  al  contrario  della  cultura  del  vecchio  continente  che  –  sempre  secondo  Vittorini  – rimaneva  ancorata  a  schemi  e  pregiudizi  vincolanti. Citando  Pavese,  la  letteratura  americana  dell’epoca  rappresentava  “il  gigantesco  teatro  dove,  con maggiore  franchezza  che  altrove,  veniva  raccontato  il  dramma  di  tutti”;   la  grande  capacità  di Vittorini  è  stata  quella  di  miscelarne  i  contenuti  e  trarne  il  nutrimento  per  elaborare  una  propria originale  poetica  di  valore  assoluto,  che  gli  ha  permesso  di  ricoprire  un  ruolo  fondamentale all’interno  della  storia  della  letteratura  italiana  contemporanea.

PATRIZIA DIOMAIUTO

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