The Wolf of Wall Street, il potere persuasivo del denaro

"The Wolf of Wall Street", l'ultimo film di Scorsese.

“The Wolf of Wall Street”, l’ultimo film di Scorsese.

Un filosofo del 1600, un certo Thomas Hobbes, studiando la natura umana, si trovò a constatare che ogni uomo, considerato nella sua individualità, tende ad acquisire per sé tutto ciò che desidera. Secondo Hobbes la cupidigia e l’avidità rendono l’uomo lupo per ogni altro uomo (homo homini lupus) e in questa lotta, in cui ciascun individuo cerca di accaparrarsi molto più di quanto già possiede, l’uomo è destinato a soccombere. Un’analisi sociologica quanto mai compatibile con l’ultimo lavoro cinematografico di Martin Scorsese intitolato “The Wolf of Wall Street”  (wolf dall’inglese lupo). Un titolo emblematico se si pensa che il protagonista della pellicola è un certo Jordan Belfort, un personaggio assolutamente amorale, che definire semplice truffatore non basta.

In “The Wolf of Wall Street” Martin Scorsese racconta l’ascesa economica e il degradante crollo di Jordan Belfort in un mondo caratterizzato dalla dissoluzione di ogni virtù morale e in cui a farla da padrone sono il denaro, il sesso e la droga. Basato sull’autobiografia del vero Jordan Belfort, che compare nella pellicola in un cameo, il film di Scorsese racconta la storia di un broker furbo e mascalzone che ha fatto fortuna vendendo in maniera fraudolenta titoli dal basso valore. Difatti a Wall Street c’è stato un tempo in cui era semplicissimo guadagnare soldi sporchi senza che ci fossero seri controlli sulle attività illecite che portavano piccoli e furbi “Robin Hood” ad arricchirsi a scapito di ignari e poveri risparmiatori, i quali venivano inconsapevolmente derubati dei propri averi. Così niente sembrava fermare il giovane e spericolato Jordan Belfort che, negli anni 90, giunto nel cuore della finanza mondiale, riesce a coronare il suo sogno americano; quello di diventare talmente ricco da guadagnare più di quanto spendeva in notti piene di  cocaina, eccessi e prostitute di lusso.

A dare voce e volto a questo personaggio il 39enne attore statunitense Leonardo DiCaprio, che della pellicola è anche produttore. La collaborazione tra Scorsese e DiCaprio, già ben consolidata, ha permesso di dare vita ad un personaggio eccessivo e nevrotico che va ad incasellarsi alla perfezione nell’universo umano e inquietante scorsesiano e abbraccia trenta anni di carriera, richiamando alla memoria una serie di personaggi indimenticabili: da Travis Bickle a Henry Hill passando per “Eddy lo svelto”.

Eppure nel tentativo di mettere in scena la formidabile ascesa di Jordan Belfort e la sua ancora più spettacolare discesa Scorsese sembra faticare a catturare l’anima del personaggio, troppo teso com’è a rappresentare l’immagine grottesca di un uomo che vedrà la sua sconfitta proprio nel  mondo in cui si era rifugiato. Altresì Scorsese finisce per confondere lo spettatore, che si chiederà qual è il senso ultimo della pellicola, senza riuscire a intuire se vuole essere una critica o una celebrazione allo stile di vita di Jordan.

Nulla da dire sull’interpretazione di DiCaprio, che risulta ancora una volta impeccabile. L’attore sembra essersi calato alla perfezione nei panni di Jordan, sempre strafatto e sopra le righe, tale che appare divertito e allo stesso tempo diverte lo spettatore. Ci racconta così la parabola di un uomo che si è fatto da solo, il quale ha compreso che per raggiungere livelli alti nella scala sociale e ottenere il successo bisogna necessariamente sacrificare ogni virtù morale. Ma nella corsa verso il successo e la gloria Jordan si costruisce da solo la sua sconfitta. Perde i suoi averi, la casa, la moglie, la figlia e gli amici. Il giusto scotto per un “lupo”, che come dice il detto perde il pelo ma non il vizio. Ed è l’altra faccia della medaglia quella con cui alla fine Jordan dovrà fare i conti, che si presenterà attraverso il volto mansueto di un semplice agente dell’FBI. L’unico che non cadrà nella trappola persuasiva di Jordan e gli presenterà il conto da pagare, ovvero la giusta punizione per una vita vissuta forsennatamente e al limite dell’ (in)decenza morale.

Maria Scotto di Ciccariello

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