Giovanni Palatucci, l’Oskar Schindler d’Oltralpe

Un'immagine di Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume che salvò oltre 5mila ebrei dalla deportazione

Uomini comuni che sacrificano la propria vita per salvare quella degli altri. Eroi del quotidiano troppo spesso sconosciuti, dimenticati, sepolti sotto le ceneri impietose del tempo. La storia è piena di esempi simili, circostanze particolari che trasformano persone normali in paladini dell’umanità. Perché la memoria, si sa, è un sensore labile, cangiante, che si trasfigura al mutar dei tempi.

Giovanni Palatucci è uno di questi eroi passati in sordina. L’Oskar Schindler d’Oltralpe che pagò con la propria vita la salvezza di oltre cinquemila ebrei. Nato (31 maggio 1909) a Montella, in provincia di Avellino, decide, contro il volere del padre che l’avrebbe voluto avvocato in Irpinia, di partire militare alla volta del Piemonte. La laurea la consegue in ogni caso, ma a Torino. Da qui si trasferisce poi a Genova come vice commissario per la pubblica sicurezza. E si rivela immediatamente un personaggio scomodo. Convinto della necessità di stabilire un rapporto improntato a una maggiore collaborazione tra la popolazione e le forze dell’ordine, recalcitrante alla burocrazia e insofferente alle ingiustizie che vede perpetrarsi quotidinamente nell’ambito del suo lavoro, fa un’opera di autodenuncia sul Corriere Mercantile di Genova che gli costa come punizione dall’alto, un “esilio” alla questura di Fiume (1937). Che sarà, insieme, sua fortuna e sua condanna.

Erano gli anni di preparazione alla seconda guerra mondiale, dei regimi totalitaristi e delle prime deportazioni. Fiume, terra di confine stretta tra i territori jugoslavi occupati dai nazisti e la Croazia degli ustacia, è zona franca oltrepassata la quale si aprono le porte della speranza per i migliaia di fuggitivi ebrei provenienti dai Balcani. Palatucci lo capisce subito, e insieme a questa constatazione si fa strada un’altra consapevolezza. Quella di doversi schierare a favore della vita umana, contro le leggi razziali. È lo scatto di una molla interiore il cui moto diventa presto incontenibile, una scelta che è impossibile da spiegare secondo ragione. Come responsabile dell’ufficio stranieri e grazie alla complicità di uno zio vescovo, affidatario di un terreno della diocesi a Campagna, in provincia di Salerno, Giovanni Palatucci mette in piedi una vera e propria rete organizzativa che, fornendo passaporti e documenti falsi, permette la fuga e assicura un nascondiglio a migliaia di famiglie ebree, instradate prima verso Sud, poi in Svizzera e Israele.

“Ho la possibilità di fare un po’ di bene e i beneficiati da me sono assai riconoscenti”.

Così scriveva Palatucci nel 1941 in una lettera ai suoi familiari. Una riconoscenza che gli venne degli sguardi di gratitudine delle oltre cinquemila persone che salvò da una morte certa, scegliendo di lottare tacitamente contro un sistema perverso schierandosi contro i suoi superiori per restare dalla parte dell’essere umano. Con l’occupazione di Fiume (1943) la situazione precipita. Palatucci viene invitato da più parti a darsi alla fuga, ma rifiuta di lasciare la zona sotto la sua giurisdizione in balia dei nazisti, anche per non compromettere i suoi collaboratori. Arrestato nel settembre del 1944, viene deportato a Dachau in ottobre, dove morirà poco dopo, a soli 36 anni. Senza riuscire ad assistere a quella Liberazione a cui aveva contribuito da pioniere, scegliendo di tutelare prima di tutto la vita umana, al di là di ogni ideologia o schieramento politico. Una vita il cui valore viene riconosciuto tardivamente (lo Yad Vashem gli conferirà il titolo di Giusto fra i Giusti solo nel 1990, mentre bisognerà aspettare il 1995 per vederlo insignito anche in Italia di una medaglia al merito civile, cui seguirà, nel 2000, un processo di canonizzazione che nel 2004 l’ha visto proclamato Servo di Dio) che, oggi più che mai, vale la pena commemorare ed eleggere a modello.

Giuliana Gugliotti

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