Dalle staminali una nuova speranza contro il Parkinson

Uno studio americano cofinanziato dall’Europa eseguendo alcuni test sugli animali è riuscito a contrastare i sintomi della malattia

La malattia di Parkinson fu descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817. Paralisi agitante è il nome che identificò la malattia per quasi un secolo fino a quando ci si rese conto che il termine risultava inappropriato perché i malati di Parkinson non sono paralizzati. Si cominciò così ad utilizzare il termine parkinsonismo idiopatico (idiopatico vuol dire “di cui non si conosce la causa”), ma il termine più corretto in italiano è semplicemente malattia di Parkinson, che rende anche omaggio al medico che per primo l’ha descritta e sostituisce la vecchia traduzione ottocentesca di “Morbo” di Parkinson.

La malattia di Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato principalmente da degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni) situate in una zona profonda del cervello denominata sostanza nera. La malattia di Parkinson si riscontra più o meno nella stessa percentuale nei due sessi ed è presente in tutto il mondo. I sintomi possono comparire a qualsiasi età anche se un esordio prima dei 40 anni é insolito e prima dei 20 é estremamente raro. Nella maggioranza dei casi i primi sintomi si notano intorno ai 60 anni. Il motivo per cui questi neuroni rimpiccioliscono e poi muoiono non é ancora conosciuto, ed è tuttora argomento di ricerca. La malattia di Parkinson è comunque solo una delle sindromi parkinsoniane o parkinsonismi. Parkinsonismo è un termine generico con il quale s’intendono sia la malattia di Parkinson che tutte le sindromi che si manifestano con sintomi simili.

La malattia di Parkinson é caratterizzata da tre sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza dei movimenti (bradicinesia) ai quali si associano disturbi di equilibrio, atteggiamento curvo, impaccio all’andatura, e molti altri sintomi definiti secondari perché sono meno specifici e non sono determinanti per porre una diagnosi. All’inizio i pazienti riferiscono una sensazione di debolezza, di impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti, che riescono a compiere stancandosi però più facilmente, in genere non si associa una sensazione di perdita di forza muscolare. Ci si accorge poi di una maggior difficoltà a cominciare e a portare a termine i movimenti alla stessa velocità di prima come se il braccio interessato, o la gamba, fossero “legati”, rigidi. La sensazione di essere più lenti e impacciati nei movimenti è forse la caratteristica per cui più frequentemente viene richiesto il consulto medico insieme all’altro sintomo principale, tipicamente associato a questa malattia e anche il più evidente: il tremore. Esso è spesso fra i primi sintomi riferiti della malattia; di solito è visibile alle mani, per lo più esordisce da un solo lato e può interessare l’una o l’altra mano. Il tremore tipico si definisce di riposo, si manifesta, ad esempio, quando la mano é abbandonata in grembo oppure é lasciata pendere lungo il corpo.

Non è però un sintomo indispensabile per la diagnosi di Parkinson, infatti, non tutti i malati di Parkinson sperimentano tremore nella loro storia e, d’altra parte non tutti i tremori identificano una malattia di Parkinson.
Altri disturbi per i quali frequentemente un malato di Parkinson si rivolge inizialmente al medico possono essere alterazioni della grafia che diventa diversa da quella consueta e mano a mano che si procede nello scrivere diventa sempre più piccola, oppure alterazioni della voce che a un ascoltatore abituale, quale è un parente, appare cambiata e viene descritta come flebile e monotona; inoltre lo stesso parente si può accorgere di una variazione dell’espressione del volto: la cosiddetta “facies figee” cioè un viso più fisso e meno espressivo. Tutti questi sintomi, ma in particolare il tremore, possono essere resi evidenti o temporaneamente aggravati da eventi stressanti.

Da anni la ricerca scientifica è impegnata a trovare rimedio a questa malattia e per cercare una cura; gli studi si concentrano principalmente sui neuroni.

Oggi una nuova speranza arriva dagli Usa. Questa nuova tecnica consente di trasformare le cellule staminali degli embrioni umani in neuroni capaci di rimpiazzare quelli distrutti dal morbo di Parkinson. Una volta trapiantati in animali, questi neuroni sono capaci di sopravvivere a lungo integrandosi bene con le altre cellule nervose. Questo è il succo dello studio americano co-finanziato dal consorzio europeo di ricerca NeuroStemCell, coordinato dalla Dottoressa Elena Cattaneo dell’Università di Milano.

Da oltre un decennio si usano le staminali per produrre in laboratorio i neuroni dopaminergici, quelle cellule del cervello che producono una molecola-segnale chiamata dopamina che scarseggia nei malati di Parkinson. I neuroni così ‘rigenerati’ sono stati finora incapaci di sopravvivere e integrarsi nel cervello dopo il trapianto, e hanno mostrato la pericolosa tendenza a crescere in modo incontrollato, con il rischio di generare tumori.
Per superare questo problema, i ricercatori americani hanno sfruttato le nuove conoscenze sullo sviluppo del sistema nervoso guidando il programma genetico delle staminali verso la trasformazione in ‘autentiche’ cellule dopaminergiche, praticamente indistinguibili da quelle presenti nel cervello umano. Una volta trapiantati in tre modelli animali affetti dal morbo di Parkinson (topi, ratti e scimmie), i neuroni hanno dimostrato di poter sopravvivere a lungo termine e di integrarsi con le altre cellule nervose creando nuove reti di comunicazione.

Inoltre, questi neuroni non proliferano in modo incontrollato, evitando così il rischio di tumori. In topi e ratti affetti da Parkinson, infine, il trapianto è riuscito addirittura a contrastare alcuni sintomi della malattia.
La disponibilità di queste nuove cellule costituisce un importante passo avanti per la ricerca e sembra poter aprire nuove strade per la lotta alle malattie neurodegenerative. Al solito, i ricercatori restano prudenti affermando che i primi studi sui pazienti non potranno iniziare prima di quattro anni.
“Questo lavoro rappresenta un importante passo in avanti verso le possibili applicazioni cliniche delle cellule staminali embrionali umane”, commenta la Dottoressa Elena Cattaneo, direttore del centro di ricerca sulle staminali dell’Università di Milano. “Questi risultati pongono una sfida all’Europa riguardo alla legislazione futura e alla competitività in questo campo”, conclude l’esperta, riferendosi ai limiti imposti alla ricerca sulle staminali embrionali umane, e alla recente sentenza della Corte di Giustizia europea che ha vietato la brevettabilità delle invenzioni da esse derivanti se queste  comportano la distruzione dell’embrione.

Federica Formisano

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