Come l’Italia meridionale donò la fortuna economica a quella settentrionale

Breve storia d’umiliazione di un popolo ingiustamente sfruttato

Breve storia d’umiliazione di un popolo ingiustamente sfruttato

“Voi amati sudditi sognate l’Italia: ma verrà il giorno che non avrete più nulla, neanche gli occhi per piangere” ( Francesco II di Borbone).

La lezione è stata inculcata fin dalle elementari: il civile e florido Piemonte conquistò l’Italia meridionale, brutalmente impoverita a causa del regno Borbone.
Alcuni ideali leghisti affermano che l’Italia doveva fermarsi al settentrione, poiché dannosa è stata l’unione col derelitto meridione.

Fonti alternative espongono una realtà diametralmente opposta: il florido meridione fu conquistato ed impoverito, da un settentrione economicamente disastrato.
In quest’ambito non si vuole dimenticare il patriottismo risorgimentale che fu glorioso ed eroico ma ammetterne gli errori e riconoscere le virtù dei vinti.
Nello stesso tempo, le conclusioni di tale ricerca non sono un invito all’assistenzialismo (fautore delle peggiori politiche del passato) ma ad un’efficace, innovativa ma rispettosa politica nel meridione.

Economicamente il “Regno delle due Sicilie” era il punto di riferimento del mediterraneo commerciale: i governati sfruttavano abilmente le doti naturali del territorio e, nel frattempo, innalzavano protezioni tariffarie ai loro commerci e manifatture.
Il surplus prodotto dalle tariffe doganali, permetteva di finanziare numerose industrie, modeste nella struttura e quindi non portate ad espandersi attraverso sanguinose guerre: l’economia non galoppava troppo rapidamente ma in modo giusto ed equo.
Lo scopo era la piena occupazione delle classi popolari: la borghesia d’affari lavorava per questo, ma non ne godeva dei frutti.
Un tipico esempio erano le officine di Pietrararsa o meglio detto “Reale Opificio”: un’industria siderurgica che costruiva le locomotive a vapore (basti ricordare che la prima locomotiva italiana nacque a Napoli); Seguita con interesse dal Papa e addirittura dallo Zar di Russia (che ne copiò la tecnica), l’industria rimase a lungo la maggior fabbrica metalmeccanica italiana.
Il lento crollo avvenne in seguito all’Unità d’Italia: al decadimento si unì l’umiliazione nel constatare che le nuove ferrovie post-unitarie furono assegnate a toscani e piemontesi.

La sacrosanta unione dello “stivale” avvenne attraverso meccanismi frettolosi e profondamente egoistici: vi fu una brutale “piemontesizzazione”, senza curarsi delle peculiarità d’ogni territorio.
La politica bellicosa del Conte di Cavour aveva dissanguato la riserva aurea del regno di Piemonte: l’inflazione era altissima e si emettevano banconote cartacee di scarsissimo valore.
Al contrario il “Regno delle due Sicilie” emetteva una forte moneta argentea o aurea, oppure delle “fedi di credito”: il cui valore rispettava sempre la riserva d’oro.
Conseguenza dell’unificazione fu l’impedimento (contro la legge sabauda) di emettere carta moneta da parte delle banche meridionali (il denaro sarebbe aumentato di valore) e il trasporto della riserva aurea borbona nelle banche settentrionali, assai scarse di metallo giallo.
L’oro non fu usato solamente per rimpolpare la riserva aurea, ma servì anche a finanziare le industrie del nord, che di conseguenza progredirono grazie alle risorse meridionali.
L’Italia settentrionale non si limitò a depredare il meridione, ma ne colpì duramente l’economia attraverso vari strumenti: impose tasse altissime ad un territorio mai gravato eccessivamente dal fisco e soprattutto abbassò improvvisamente le tariffe doganali.Un’altra grand’umiliazione per l’economia del mezzogiorno, furono le industrie costruite sul territorio ma date in appalto ad imprenditori settentrionali o inglesi.
La diretta conseguenza fu un meridione sfiancato ed impoverito, l’emigrazione e la rovina di numerose industrie fiorenti: un caso clamoroso fu il fallimento dell’opificio tessile di San Leucio, i cui macchinari furono trasportati a Valdagno(Vicenza) e diedero la fortuna alla famiglia Marzotto, altro episodio che agevolò il decollo economico dell’Italia settentrionale.
L’economia settentrionale, nonostante tutto, non fu in grado di gestire la fortuna “altrui”: perché a sua volta cadde nella spirale del debito pubblico e non riuscì più a convertire la moneta in oro.

Ovviamente qualcuno si ribellò a questi soprusi: Giuseppe Garibaldi aveva promesso le terre ai contadini e la popolazione meridionale (per altro non certo la maggioranza) sperava in una nuova economia florida.
La delusione si trasformò in ribellione violenta e nacquero i “briganti”: il “brigantaggio” fu duramente represso; La repressione coinvolse anche la gente comune: la classe dirigente borbona, i lontani famigliari dei rivoltosi o semplicemente il popolo che si sentiva frodato.
Nei primi anni d’Unità d’Italia vi furono nel meridione: 5212 giustiziati, 54 paesi rasi al suolo, un milione di morti e 6564 gli arresti.
E’ accertato che l’insofferenza della popolazione non scaturì dagli avvenimenti politici/ideologici o dall’indole meridionale (che al contrario si dimostrava gentile ed ospitale) ma semplicemente dalla grave frustrazione ed umiliazione sociale.

Verso i prigionieri, lo stato italiano adottò le peggiori punizioni, solitamente assegnate ai più efferati criminali.
Stipati sulle navi come animali, approdarono a Genova e da li furono smistati nelle città del nord; “vissero” in veri e propri lager: mal vestiti, mal nutriti (una brodaglia e pane nero raffermo), ammalati di rogna e destinati alla morte per stenti.
In Piemonte esisteva la terribile prigione di “Fenestrelle”: un insieme di forti, protetti da numerosi bastioni ed attraversati da un’impervia scala di quattro mila gradini; celle prive di pagliericci, di luce, di coperte e addirittura di finestre (i prigionieri dormivano al freddo assoluto): un tentativo di sommossa costrinse i prigionieri ad essere legati con una palla di ferro di sedici chili.
Tra i detenuti si trovavano gente d’ogni sorta(assassini, sacerdoti, intellettuali, magistrati, dipendenti pubblici, giovanissimi, vecchi, ecc.), solitamente inconsapevoli del motivo della loro prigionia: talvolta solo per il gusto di appropriarsi i loro beni o soltanto perché coerentemente fedeli ai Borboni.
La stessa famiglia reale fu dileggiata ad arte: Francesco II fu ribattezzato “Franceschiello” e furono create (attraverso rudimentali fotomontaggi) foto pornografiche riguardanti la Regina Maria Sofia, spendendole sprezzatamene nelle corti europee.

Solo la morte liberava i detenuti da queste torture: i cadaveri erano disciolti nella calce viva, senza nessun segno che li ricordasse( lapidi o croci) poiché il crimine dove passare sotto silenzio; tutt’ora nel luogo della “tumulazione” campeggia una frase, riecheggiante i motti ritrovati nei lager nazisti: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
I “fortunati” liberati erano esiliati a vita nelle isole dell’arcipelago toscano.

Dal momento in cui i prigionieri divennero troppi, si pensò ad imprigionarli in isole lontane (come se fossero galeotti della peggior specie); le proposte furono inoltrate in tutto il mondo: un’isola disabitata dell’oceano atlantico, l’arcipelago del Borneo, le colonie portoghesi in Africa (Mozambico e Angola), la gelida Patagonia argentina, il corno d’Africa, la Tunisia.
La neonata Italia, tanto crudele con i propri concittadini, fu ridimensionata dagli stati esteri: nessuno ascoltò le richieste e i prigionieri dovettero restare in Italia.

Incallito aguzzino della popolazione meridionale, fu un apparentemente rispettoso nobile piemontese, ingegnere, militare e futuro presidente del consiglio: Luigi Federico Menabrea.
Nobile e grande scienziato, egli fu la tipica personalità che riuscì nell’eroica impresa di riunire l’Italia, ma nello stesso tempo un rappresentante di quella classe dirigente che sfruttò e depredò il meridione, sedendosi poi sugli allori di padre della patria.

Rey Brembilla

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