Calcio Napoli, Pandev: «Possiamo arrivare lontano»

Goran Pandev, attaccante macedone del Napoli, ha concesso un’intervista al Corriere del Mezzogiorno

Ventinove anni compiuti a luglio, segno zodiacale leone: il piglio e la forza di Goran Pandev, di professione top player. Attaccante di caratura internazionale, titolato con Scudetto, Coppa Italia, Champions League. Medaglie che conserva nella mente, nelle fotografie di città come Milano, Roma e Napoli. E che gli hanno dato la forza di non mollare quando, del top player che era stato, nessuno voleva più sentir parlare. Eh, sì. Quante pene dopo tanta gloria. Prima di arrivare a Napoli, il forte Pandev era stato messo fuori rosa dal presidente della Lazio Lotito. Mesi di isolamento, mesi in cui vedeva gli allenamenti dei compagni da lontano. Poi di nuovo l’Inter, la gloria con Mourinho e il triplete. Anno fantastico che, puntualmente, finisce. E Pandev torna ai margini. Si allena male, non ha stimoli. La luce in fondo al tunnel, per lui, si chiama Napoli. E Mazzarri. Prestito con diritto di riscatto, una squadra con un progetto importante. Una società, però, dove deve ricominciare da zero. E’ una seconda scelta. In gergo: panchinaro. Otto chili in sovrappeso, esordio in maglia azzurra non felice. Testa dura per insistere, parlare chiaro con Mazzarri. Dimagrire e convincere. Lo ha fatto in meno di un anno. Il top player è tornato più forte di prima. «Sto bene, mai sentito meglio. Così forte non lo sono stato mai».

Dal gol decisivo in Champions, all’Allianz Arena contro il Bayern Monaco, con la maglia dell’Inter alla panchina col Napoli: come si fa a rimettersi in discussione?
«Con la forza del carattere, la consapevolezza che il calcio è la tua ragione di vita. Ho imparato a gioire, ma anche a soffrire. Napoli rappresentava per me un progetto importante, una svolta nella mia vita professionale. Ho accettato la sfida di ricominciare dalla panchina con un allenatore che mi ha parlato chiaro fin dall’inizio».

Cosa le disse Mazzarri?
«La verità. Che ero fuori forma, dovevo ricominciare ad allenarmi con continuità. Non è stato facile: ho un carattere particolare, talvolta mi butto giù. E qui Mazzarri e i miei compagni di squadra sono stati fondamentali. Nonostante tutto percepivo la fiducia del gruppo. Ero fortemente spronato a riconquistare la forma migliore».

Eppure qualche delusione l’ha vissuta anche all’inizio della sua esperienza napoletana.
«Sicuramente. Ma stavolta avevo trovato un allenatore che in disparte, faccia a faccia, mi diceva sempre la verità. In maniera chiara. Per un calciatore è determinante. I colloqui con Mazzarri mi ricordano le chiacchierate con Mourinho».

Ma davvero sono così simili?
«Caratterialmente, nella gestione dello spogliatoio, sì. Sono due grandi motivatori. Mazzarri è più tattico, studia maniacalmente le partite e i movimenti della propria squadra. Mou non ne ha mai avuto bisogno, ha sempre allenato squadre con tutti top player».

Il portoghese ha una bacheca invidiabile, Mazzarri per ora ha una Coppa Italia.
«Salvare una squadra con quindici punti di penalizzazione vale più di uno scudetto. Ricordo che nello spogliatoio della Lazio ne parlavamo spesso. Nessuno avrebbe scommesso che la Reggina sarebbe rimasta in serie A. Mazzarri qui è riuscito in tre anni a dare una identità al Napoli, ad imprimere un gioco che è diventato il migliore in Italia. Anche per questo ho deciso di restare in azzurro, nonostante avessi altre offerte».

Possibile che non abbia neanche un difetto?
«Tutti noi abbiamo difetti. E lui ha i suoi. Poi se eliminasse tutte quelle sigarette sarebbe meglio. E, magari, se mi chiedesse meno di pesarmi. Ogni giorno mi sottopone all’esame della bilancia».

Le piace mangiare?
«Beh, sì. E qui a Napoli è difficile resistere ai piaceri della tavola. Poi c’è la mozzarella: se potessi la mangerei tutti i giorni».

Roma-Milano-Napoli: tre grandi città di calcio così diverse tra loro. Dove si è sentito più a suo agio?
«A Roma ho vissuto anni meravigliosi. Ho sposato mia moglie, ho avuto la fortuna di giocare con Delio Rossi che mi ha aiutato a crescere come uomo e come calciatore. Però il salto di qualità c’è stato quando sono andato a Milano. Una città più fredda, ma affascinante. Diversa. Napoli, invece, è stato il posto giusto al momento giusto. Avevo bisogno di un ambiente caldo, delle pressioni che tornavano finalmente forti. Avevo fame di tifosi che mi facessero sentire importante».

Eppure per qualche suo ex compagno (Lavezzi, ndr) questo amore esagerato era diventato asfissiante.
«Io, invece, oggi non ne potrei fare a meno. La passione della gente, la fiducia dei tifosi, è una carica incredibile. Altrove ho vinto Scudetti e Champions League, ma quello che mi è capitato qui con la vittoria della Coppa Italia non l’avevo mai visto. In nessuna parte del mondo ho visto tante lacrime per una Coppa».

Per questo, domenica scorsa dopo il gol al Parma, ha esultato incitando il pubblico partenopeo?
«Ho voluto ricambiare l’affetto che questa gente mi ha dato. E spero non finisca qui».

Dove arriva il Napoli quest’anno?
«Possiamo arrivare lontano, migliorando la classifica dello scorso anno. E’ troppo presto per dare un obiettivo preciso, ma ci sentiamo una squadra solida e determinata che può lottare per il vertice. La Juve resta la squadra da battere, la Lazio ha il vantaggio di aver cambiato poco, poi ci sono la Roma e le milanesi».

Sempre la Juve: la squalifica dopo Pechino adesso l’ha scontata. Può finalmente dire se ha offeso il guardialinee.
«L’ho già detto e lo ripeto. Non ho offeso nessuno».

Torniamo al Napoli e all’abbraccio ricorrente a Insigne.
«Lorenzo è un bravissimo ragazzo. Ha grande talento e si sta impegnando moltissimo. Sono sicuro che crescerà ancora e tanto. Deve essere aiutato e sostenuto perché è un napoletano che gioca nel Napoli. E questo è un aspetto da non sottovalutare».

Adesso si sente leader di questo Napoli?
«Mi piace la pressione, adoro le responsabilità. Perché sono uno stimolo in campo. Ma non sono l’unico leader di questa squadra. La forza è il gruppo. Unico, unito. Marek è straordinario, un centrocampista che ogni anno va sempre in doppia cifra. Giocare con lui e Cavani è più facile».

Lei, nel nuovo modulo, si sente più goleador o assist-man?
«Sono un attaccante e il gol è la mia linfa vitale. Ma certi assist mi regalano altrettanta soddisfazione».

Fuori dal calcio com’è Pandev?
«Un ragazzo tranquillo che adora passare il tempo libero con moglie e bambini».

Ha un figlio maschio, diventerà calciatore?
«Non lo so. Però io giocavo anche a basket».

A che età ha dato i primi calci al pallone?
«Avevo sei anni. Mia madre voleva che andassi a scuola mentre io trascorrevo l’intera giornata per strada a giocare. Oggi, quando passeggio per le strade di Napoli, torno indietro nel tempo. Mi è capitato di vedere ragazzini che giocano nei vicoli utilizzando pietre o bidoni come pali delle porte. Proprio come capitava a me a Strumica, il mio paese natale in Macedonia».

A sedici anni arrivò in Italia, acquistato dall’Inter. Nello stesso periodo i Balcani vivevano il momento più tragico di una guerra tra etnie. Lei come l’ha vissuta?
«La guerra è brutta anche se la vedi da lontano. Io ero in Italia, ma la mia famiglia viveva giorni difficili in Macedonia. Per fortuna non è stata come in Kosovo, anche se quelle scene di morte non le dimenticherò mai. Nonostante quei momenti di difficoltà, la mia famiglia mi incoraggiava ad andare avanti, a diventare un calciatore affermato anche in Italia. Andare all’Inter a sedici anni è stato motivo d’orgoglio per tutto il mio Paese, ha aiutato un po’ la gente a vivere meno tragicamente quegli anni. Ricordo che molti diventarono tifosi nerazzurri».

E adesso che è il top player del Napoli?
«Che dubbio c’è? Tutta la Macedonia tifa per il Napoli».

Fonte: Corriere del Mezzogiorno

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